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— Ciao — disse Leonore, scostando una seggiola e accomodandosi. — Lui è il mio amico Don.

Anche lui si sedette. Erano stati accostati due tavolini rotondi.

Leonore gli indicò un allampanato ragazzo asiatico: — Ti presento Makoto. Lei invece è Halina — una brunetta — e lei è Phyllis — una bionda di altezza considerevole.

— Ciao a tutti — disse Don — e grazie per l’accoglienza. — Un secondo dopo arrivò Gabby, che era ancora di servizio. Dopo che la cameriera ebbe elencato le specialità della casa, Don ordinò una Old Sully’s Light, l’unica birra ipocalorica disponibile.

Leonore si buttò a capofitto nel tema principale della conversazione: un loro amico che aveva litigato con la ragazza. Don ne approfittò per studiare la personalità dei componenti del gruppo. Halina non spiccicava verbo, ma aveva dei lineamenti mobilissimi che reagivano in modo eccessivo a ogni frase che sentiva: sopracciglia che balzavano su, mascella che cascava giù, sorriso da qui a lì, fronte corrugata. Un corso accelerato per aspiranti attori. Phyllis aveva un umorismo becero e usava di continuo l’espressione: “del cazzo”. Makoto sembrava scocciato dalla presenza di Don; forse aveva pregustato una serata come unico maschio in mezzo a tre belle ragazze.

Quanto a lui, per gran parte del tempo si limitò ad ascoltare, ridendo alle poche battute che capiva e tracannando birra. Voglia di intervenire nel dibattito, scarsa: erano tutte questioni terra-terra, gonfiando all’infinito le più banali crisi adolescenziali. I tre compari di Leonore non avevano la più pallida idea di che cosa fosse la vita “vera”, tra educazione dei figli e dinamiche del lavoro. Leonore invece di cose interessanti da dire ne aveva, ed era l’unica che Don ascoltasse con attenzione; per il resto, orecchiava la conversazione della coppia di mezza età al tavolo accanto. Riguardava il partito conservatore, che alle prossime elezioni avrebbe stracciato i liberal, perché...

— Avete visto in TV la famosa Sarah Halifax, l’altra settimana? — disse Makoto. — È un cadavere ambulante, avrà più di cento anni.

— Ne ha solo ottantasette — disse Don, in tono pacato.

Solo! — fece Makoto, a beneficio di chi non avesse notato l’assurdità.

Intervenne Leonore: — Makoto, Don è il...

Don la interruppe. — Volevo solo precisare l’età di Sarah Halifax.

— Bé, meno male — sghignazzò il ragazzo — somiglia solo a una mummia egiziana. Dev’essere completamente arteriosclerotica.

Halina annuì con convinzione, ma senza fare commenti vocali.

— Cosa te lo fa pensare? — domandò Don, sforzandosi di mantenere la calma.

— Sia ben chiaro — disse Makoto. — Lo so che era stata lei a interpretare il primo messaggio, ma alla TV hanno detto che, secondo McGavin, adesso la befana sarebbe in grado di ripetere l’exploit con il secondo messaggio. — Scosse la testa come a dire: “Ma siamo scemi?”.

— A proposito di messaggi — si intromise di nuovo Leonore, tentando sportivamente di cambiare discorso — l’altro giorno mi ha scritto Ranjit dal CFH.

Dice che...

Ma ormai Don era scattato. — La professoressa Halifax capisce i Draconiani meglio di chiunque altro!

Makoto minimizzò. — Forse ai suoi tempi gloriosi, ma ora...

— Sono ancora i suoi tempi gloriosi. Senza di lei, questo dialogo con gli alieni non esisterebbe nemmeno.

— Okay okay — concesse il ragazzo — ma se McGavin avesse speso un po’ dei suoi soldi per qualcuno in grado di..

— E saresti tu?

— E perché no? Meglio per uno nato in questo secolo, anzi in questo millennio, che per quattro ossa rinsecchite.

Don abbassò gli occhi sulla bottiglietta di birra, semivuota, che aveva davanti.

Era la seconda o la terza? — Stai solo sputando veleno — disse, senza sollevare lo sguardo.

— Ascolta, Dan — disse Makoto — non è il tuo campo. Non sai di cosa stai parlando.

— Si chiama “Don” — fece Leonore. — E sarebbe forse meglio che dicesse chi...

— Io so di cosa sto parlando — disse Don. — Sono stato ad Arecibo e all’Allen Institute.

Makoto lo squadrò. Ma non darti tante arie, che non sei un cazzo di astronomo!

“Fanculo.” — Lasciamo perdere, vá. — Si alzò di scatto, facendo sbattere la sedia contro il tavolo dietro di lui. Leonore lo osservava sconvolta: immaginava che stesse per mollare un pugno a Makoto, il quale a sua volta aveva un’espressione da “avanti, provaci”. Ma Don disse semplicemente: — Vado al bagno — e si lanciò per la scaletta che portava al piano interrato.

Lo svuotamento della vescica richiese un certo tempo, e meglio così, perché aveva bisogno di sbollire. Ma porca puttana, ma perché non imparava mai a tenere il becco chiuso? Gli sembrava di vedere la scena, al piano di sopra: “Bell’amico che ci hai portato, Lennie. Che cos’è, psicopatico?”.

“Gioventù di merda.” Tirò lo sciacquone e si lavò le mani, evitando di guardarsi allo specchio, poi tornò al tavolo. Leonore lanciava occhiate significative a Makoto.

— Ascolta, amico — disse il ragazzo — mi dispiace. Non sapevo che fosse tua nonna.

— Sì — aggiunse Phyllis — scusaci un po’ tutti.

Le parole non gli uscirono, perciò Don annuì.

La conversazione proseguì senza troppa partecipazione da parte sua. Divorarono una montagna di alucce di pollo; la risorta possibilità di staccare la carne dalle ossa con i suoi denti gli restituì un minimo di buonumore. Diviso il conto, Makoto disse: — Bene, la moto mi aspetta. — Voltandosi verso Don, soggiunse: — Lieto di averti conosciuto.

Lui rispose in tono piatto: — Anch’io.

— Io devo andare — disse Pyllis. — Domattina presto ho un incontro con il mio supervisore. Vieni con me, Halina?

— Sì — rispose lei. La prima parola della serata.

Quando furono soli, Don disse a Leonore: — Scusami.

Lei sollevò un sopracciglio. — Per cosa? Per aver difeso una persona assente, e per di più tua nonna? Sei un bravo ragazzo, Donald Halifax.

— Ti ho rovinato la serata. Ai tuoi amici non sono andato a genio, e...

— Sì, invece. Okay, a parte Makoto. Mentre eri al bagno, Phyllis ha detto che sei proprio un tipo galante.

Rimase a bocca aperta. Galante! Non è un gran complimento nei confronti di un venticinquenne.

— Credo di dover andare anch’io — disse.

— Ti seguo — disse Leonore.

Uscirono dal locale; lui con le due borse di documenti. Con grande sorpresa di Don, era già buio: non si era reso conto di quante ore fossero trascorse. — Bé — disse — grazie della serata. Adesso però...

Anche Leonore era stata presa in contropiede dal buio. — Faresti due passi con me per accompagnarmi a casa? Non è lontano, ma non è un quartiere molto raccomandabile di notte.

Don guardò di nuovo l’ora. — Oh... va bene. Okay.

Leonore si accollò una delle buste, e s’incamminarono, con la colonna sonora della parlantina di lei. Il clima era ancora afoso quando raggiunsero la Euclid Avenue, un viale alberato lungo il quale si allineavano edifici cadenti. Incrociarono due tipi tutti muscoli. Uno, con il cranio rasato che scintillava alla luce dei lampioni, e sul bicipite un teschio ghignante. L’altro con cicatrici da laser sul volto e sulle braccia; erano facili da cancellare in ambulatorio, ma probabilmente le teneva come mostrine d’onore. Leonore abbassò gli occhi al marciapiede malandato, imitata da Don.

— Bene — disse lei, un centinaio di metri più avanti — siamo arrivati. — Una casa decrepita, con abbaini.

— Non male — disse lui.

Lei rise. — Fa schifo! Però è economico. — Fece una pausa, assumendo un’espressione preoccupata. — Ma guardati, come sei ridotto. Con questo caldo sarai disidratato, e di qui alla metro è un bel pezzo. Dài, vieni su, ti do una bottiglietta da portarti via.