Lui intanto scese nel seminterrato, un ambiente che era rimasto sempre più inutilizzato; anche perché la scaletta era ripida e a una sola ringhiera, dalla parte del muro. Adesso però per lui non era più un problema percorrerla e, nelle calde giornate estive, quello era il luogo più fresco della casa.
Nonché quello che meglio garantiva la privacy.
Si buttò sul vecchio divano che c’era là sotto, con lo stomaco in subbuglio. Si guardò attorno. Lì dentro era stata scritta una pagina di Storia. Proprio là, Sarah aveva avuto l’idea geniale per decodificare il corpo del messaggio alieno. Se ora fosse riuscita a decifrare anche il secondo messaggio, avrebbe fatto colpo doppio.
Magari un giorno qualcuno avrebbe appeso una targa commemorativa all’esterno della casa.
Don teneva stretto tra le dita il palmare, le cui valve erano madide del suo sudore. Gli era venuta più volte la fantasia di rivedere Leonore, ma era sempre stato bloccato dal super-Io. Però lei gli aveva fatto promettere che l’avrebbe richiamata, e lui mica poteva sedurla e abbandonarla a quel modo. Sarebbe stato brutto, sarebbe stato egoistico. Niente da fare, doveva chiamarla e darle un addio in piena regola. Le avrebbe detto tutta la verità su di sé.
Inspirò in profondità, espirò lentamente. Aprì il palmare, lo richiuse di scatto.
Lo riaprì, con l’allegria di qualcuno che riesumi un cadavere dalla bara.
Disse al palmare a chi dovesse inoltrare la chiamata.
Un tut-tuuu assordante come una campana a distanza ravvicinata. Poi...
Una voce squillante: — Pronto?
— Ciao, Leonore — disse lui, con il cuore che martellava. — Sono io, Don.
Silenzio.
— Don Halifax, ti ricordi?
— Ciao — disse Leonore, stavolta in tono glaciale.
— Ascolta, mi spiace di non aver chiamato prima, ma...
— Sono passati tre giorni.
— Lo so, lo so, ti chiedo scusa. Volevo contattarti, sul serio. Non volevo che tu pensassi che sono uno di quelli che... bé, capisci, uno di quelli che dopo non richiamano.
— Quasi ci ero cascata.
Lui balbettava. — Perdonami. Tu meriti molto di più di...
— È vero.
— Sì, sì, ma ascolta, io...
— Non ti è piaciuto?
— Mi è piaciuto da impazzire! — E non mentiva. Era stato praticamente l’unico momento di felicità nell’arco di settimane. Non solo per il sesso, ma anche per aver incontrato una persona con cui stare così bene, e...
Leonore sembrò sollevata. — Sono contenta. Anche a me. Tu... tu sei speciale.
— Oh... ti ringrazio. Anche tu. È che... mmm...
— Sentimi bene — disse lei, come facendo una concessione speciale. — Domani sarò impegnata alla Banca alimentare, ma domenica sono libera. Ci incontriamo?
“No” pensò Don. — Che cosa proponi? — chiese, stupendosi lui stesso delle parole che uscivano da sole.
— Secondo le previsioni, sarà una giornata da favola. Che ne dici di una gita a Centre Island?
“Non posso” pensò lui. “La faccenda si chiude qui.”
— Don? — disse lei, quando il silenzio si fu protratto per vari secondi.
Lui chiuse gli occhi. — Okay — disse. — Okay perché no?
Arrivò al molo dei battelli, in fondo a Bay Street, con una decina di minuti di anticipo. Si mise a spiare il viavai di gente, finché...
Eccola. La rara, radiosa tra le belle, che gli angeli invocavano con il nome di Leonore. Gli correva incontro in shorts striminziti bianchi e un bianco, svolazzante, top, tenendo stretto un enorme cappello. Leonore si allungò per posargli un bacio furtivo sulle labbra, poi si ritrasse sorridendo, e...
E lui restò di sasso. L’aveva mentalmente invecchiata a trentacinque anni, che riteneva l’età più appropriata per una donna con cui confidarsi; ma la Leonore in carne e ossa, fresca e lentigginosa, dimostrava tutti e dieci gli anni in meno che aveva.
Salirono a bordo del Max Haines, il battello a due ponti che li avrebbe traghettati per un chilometro e mezzo fino a Centre Island, e alle sue passeggiate, spiagge, parchi divertimenti, giardini.
Leonore disse che aveva scelto quella meta perché aveva nostalgia del mare, ma non si era rivelata una scelta azzeccata: i gabbiani rimpinzati di immondizie non erano granché come sostituti dei grandi aironi azzurri di Vancouver, e nell’aria non si respirava nessuno iodio. In compenso, nella mezz’ora di tragitto in balia delle onde, Don trovò stupenda la sensazione del vento che gli arruffava i capelli.
Arrivati a terra, si misero a percorrere la passeggiata, divertendosi a evitare gli escrementi delle oche selvatiche. In lontananza sulla destra s’intravedeva la baia, e sul lato opposto Toronto, con la sua silhouette di edifici che Don aveva visto svilupparsi per gran parte di un secolo. A dominare la città era ancora la CN Tower, che però aveva perso il record di più alta struttura senza supporti del mondo.
Quand’era teenager era andato con l’amico Ivan a vedere il cantiere dove le gru la stavano assemblando; dal suo corpo ciclopico si diramavano lateralmente altri colossi, come un menu messo in piedi su un tavolino. Don ricordava quando nel centro di Toronto c’era solo un pugno di grattacieli, ma adesso arrivavano fino in riva al lago.
E da allora era cambiato molto di più che la skyline. Anche se, viceversa, molte cose erano cambiate molto meno in fretta di quanto lui si aspettasse. Don era andato con il padre alla prima visione di 200l Odissea nello spazio nel 1968, ed essendo nato nel ’6O non aveva avuto difficoltà a calcolare che nel 200l avrebbe compiuto quarantuno anni. All’epoca suo padre ne aveva quarantatré, perciò Don sarebbe stato più giovane di lui nel momento in cui tutte quelle meraviglie sarebbero apparse nel mondo reale: aerei spaziali, stazioni orbitanti ad anello dotate di hotel di lusso, città sulla Luna, viaggi su Giove, sospensione criogenica, e... Hal, l’intelligenza artificiale (purché non ti chiudesse fuori dalla porta).
Allo scadere del 200l non si era avverata nessuna di quelle previsioni. Questo avrebbe dovuto immunizzare Don dalle profezie scritte nel primo decennio del XXI secolo dagli autori di fantascienza: eccentricità scientifiche a gogo; modificazioni corporee spinte all’estremo, o per via genetica o per via bionica; assemblaggi nano-tecnologici in grado di trasformare qualsiasi cosa in qualsiasi altra...
Don osservò la sua città natale al di là della distesa delle acque. Accucciato ai piedi della CN Tower c’era lo stadio in cui giocavano i Blue Jays. Lui lo indicò: — Guarda, lo Sky Dome ha la cupola aperta.
Leonore lo osservò come se avesse parlato in giapponese.
“Stronzo che sono.” Lo aveva chiamato “Sky Dome” come faceva la gente della sua età, ma erano quarant’anni che l’edificio aveva cambiato nome. Il gap tra loro due era un demone onnipresente. — Intendo il Rogers Centre. Ha... il tetto aperto, ecco. — Era un’osservazione così banale che adesso si vergognava di averla fatta.
— Bé, è una magnifica giornata — disse Leonore, cambiando provvidenzialmente argomento.
Camminavano tenendosi per mano, in mezzo alle traiettorie impazzite di mille skate-board, hoverpad, rollerblades e gente che faceva jogging. Leonore aveva indossato il cappello a falde enormi per proteggere la sua pelle diafana. Lui invece si godeva la naturale protezione offerta dai capelli, dopo quattro decenni di calvizie.
Finora avevano chiacchierato del più e del meno, con una vivacità così diversa dagli affettuosi silenzi delle coppie sposate da tempo immemorabile, quando si era ormai esaurito il materiale per condividere opinioni, fare battute, indagare fatti.
— Tu giochi a tennis? — gli domandò Leonore mentre incrociavano due tizi con le racchette.