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— Dov’è in questo momento il palmare di Sarah? — domandò Don al proprio apparecchio.

— In casa — rispose l’oggetto, connettendosi al suo simile. — Sul comodino.

Don aggrottò le ciglia. Sarah non si sarebbe allontanata senza il palmare, eppure non rispondeva a nessuno dei due telefoni. C’era qualcosa che non andava, se lo sentiva.

Affrettò il passo verso la fermata Bathurst della metropolitana. Prendere un taxi sarebbe costato un patrimonio e non avrebbe accelerato i tempi, dati gli imbottigliamenti.

La fortuna non lo aiutò. Arrivò alla piattaforma giusto in tempo per vedere un treno che ripartiva; essendo domenica sera, la corsa successiva non sarebbe passata prima di un tempo lunghissimo.

Il palmare aveva segnale anche nel tunnel della metro, ma ogni volta che Don provava a chiamare casa, l’unica voce che sentiva era la propria, quella da vecchio, che diceva: — Salve. In questo momento né Sarah né io possiamo rispondere. Vi preghiamo di...

Si mise a sedere su una delle panche, sostenendosi la testa con le mani e contemplando lo sporco pavimento grigio.

Dopo un’eternità, arrivò finalmente a North York-Centro e si precipitò fuori dalla metropolitana. Corse su per la scala mobile, attraversò come una furia i tornelli, e si ritrovò in una Parke Home Avenue deserta e poco illuminata. A passo svelto si diresse verso casa, a tre isolati di distanza, provando ancora una volta a telefonare, ma senza risultato. Infine, aprì la porta d’ingresso e...

Lei giaceva a faccia in giù sul parquet di fronte al guardaroba. — Sarah!

Aveva braccia e gambe spalancate. L’abito estivo che indossava le si era avvolto intorno come un sudario. Doveva avere perso l’equilibrio mentre scendeva dal salotto verso l’atrio. — Sarah, stai bene?!

Lei ebbe un sussulto, sollevando di un centimetro la testa.

— No! Non fare movimenti!

— La gamba... — mormorò Sarah. — Oh, Dio, l’osso ha dato un colpo secco, e...

Qualche anno prima, Don aveva seguito delle lezioni di pronto soccorso. — Questa? — domandò, toccando la gamba destra.

— No, l’altra.

Don scostò la stoffa. L’arto era sbucciato e gonfio. Lo tastò, e Sarah fece una smorfia di dolore. Non c’era telefono all’ingresso, perciò lei per chiamarlo avrebbe dovuto salire i sei gradini fino al soggiorno, ma non aveva né la forza né la coordinazione per saltellare su una gamba sola. Lui prese il palmare e disse: — Chiamare il 118.

— Vigili del fuoco, polizia o un’ambulanza? — chiese l’operatrice.

— Un’ambulanza. La prego, è urgente!

— Sta chiamando da un apparecchio mobile, ma vedo le coordinate sul GPS. Il suo indirizzo è... — Lo lesse. — Esatto?

— Sì, sì.

— Mi dica cos’è successo.

Lui deglutì. — Mia moglie è... ha ottantasette anni, ed è caduta dalle scale.

— L’ambulanza è partita — disse l’operatrice. — Il palmare da cui chiama è intestato a nome Donald R. Halifax. È lei?

— Sì.

— Sua moglie è in stato cosciente, signor Halifax?

— Sì, ma ha una gamba spezzata, ho verificato.

— Allora non provi a spostarla.

— Non l’ho fatto e non intendevo farlo.

— La porta di casa è aperta?

Lui diede un’occhiata. Lo era. — Sì.

— Molto bene. Resti accanto a sua moglie.

Don prese la mano a Sarah. — Lo farò. — Cristo santo, perché non era lì quando era successo? La guardò negli occhi, occhi azzurri che adesso erano semichiusi, con venature sanguigne. — Resterò accanto a lei. Giuro che non mi allontanerò.

Chiuse la comunicazione e posò il palmare sul pavimento. — Mi spiace — disse a Sarah. — Mi spiace così tanto...

Lei non rispose, ma il pensiero inespresso era che lui avrebbe dovuto rientrare molto prima.

— Mi spiace — ripeté Don, sentendosi sempre più male. — Scusami, scusami, perdonami, io...

— Va tutto bene — disse Sarah, sforzandosi di sorridere. — Sono sicura che non ci sono danni permanenti. Dopotutto, siamo nell’Era delle “magnifiche sorti e progressive”. — Lui riconobbe la citazione, ma annuì vacuo. Sarah continuò a fare cenni con la testa, finché Don capì: stava alludendo a lui. Adesso era lei a stringergli affettuosamente la mano. — Andrà tutto bene — disse. — Tutto bene, vedrai.

Mentre aspettavano l’ambulanza, Don non riuscì più a guardarla negli occhi. Le sirene vennero a liberarlo dagli spettri che gli si agitavano nella testa. Dalla porta aperta filtrò una luminescenza rossastra. Sembrava danzare.

28

Per fortuna era una semplice frattura. La scienza ortopedica aveva fatto passi da gigante da quando, ai tempi del liceo nel lontano 1977, Don si era rotto una gamba durante una partita di football americano. Le estremità del femore fratturato di Sarah vennero allineate, fu aspirata via parte del liquido in eccesso, si praticò un’infusione di calcio (di cui non ci sarebbe stato bisogno, se il Rollback avesse funzionato), e infine venne fissata una struttura leggera di sostegno intorno alla gamba. Il gesso ormai era usato solo per il trasporto delle ossa dei fossili. Il medico disse che Sarah sarebbe tornata in forma entro due mesi; nel frattempo, grazie al sostegno motorizzato, non avrebbe dovuto fare ricorso alle stampelle, anche se era consigliabile una canna da passeggio.

Per ulteriore fortuna, il loro Piano sanitario copriva quella spesa. La crisi del sistema previdenziale canadese era quasi del tutto superata; all’inizio del boom delle biotecnologie i prezzi erano schizzati alle stelle, poi però, come sempre accade, erano ridiscesi progressivamente. Terapie che negli anni della gioventù di Don costavano centinaia di migliaia di dollari, adesso erano ridotte a una frazione di quella cifra. I farmaci più sofisticati erano diventati così economici che i governi si potevano permettere di regalarli ai Paesi del terzo mondo. E un bel giorno, tutti coloro che lo desideravano avrebbero potuto permettersi un Rollback.

Quando furono tornati a casa dall’ospedale, Don aiutò Sarah a prepararsi per la notte. Pochi minuti e lei dormiva saporitamente, anche per merito degli analgesici prescritti dal dottore. Don, al contrario, non riusciva a chiudere occhio. Disteso sulla schiena, restò a osservare il soffitto immerso nel buio, rischiarato di quando in quando da una lama di luce prodotta da un’automobile di passaggio.

Lui amava Sarah. La amava poco meno che da quand’era nato. E mai, mai l’aveva fatta intenzionalmente soffrire. Però, nel momento in cui lei aveva avuto più bisogno di lui, lui non c’era stato.

In lontananza, la sirena di un’ambulanza. C’era qualcun altro nei guai, come quello che avevano appena passato loro due.

“No.” No, affatto. Non lo avevano passato loro due, lo aveva passato lei.

Buttata per terra per ore, ad aspettarlo per ore, mentre lui era tutto impegnato a scoparsi una che aveva meno... Cristo... meno di un terzo della sua età.

Don si girò su un fianco, rivolgendo la schiena a Sarah e abbracciandosi le gambe in posizione fetale. Gli occhi gli si inchiodarono sui numeri blu della sveglia digitale. Restò lì a guardare lo scattare dei minuti, uno dopo l’altro...

Per la prima volta da anni, Sarah aveva reclinato la poltrona anatomica. Diceva che quella posizione era più comoda per tenere allungata la gamba. Don, nonostante non avesse dormito quasi niente, non riusciva a stare fermo; continuava a camminare avanti e indietro per il lungo salotto. Sarah aveva spesso scherzato sul colpo di fulmine che entrambi avevano avuto per quella casa fin dal primo istante: lei, per via del caminetto; lui, per quel soggiorno lungo e stretto che non chiedeva altro che qualcuno ci camminasse avanti e indietro.