— Oggi cos’hai di bello in programma? — gli domandò lei. Lo schermo a muro indicava le 9.22 del mattino. Grazie alle finestre fotocromatiche, la luce del sole di agosto era sopportabile.
Lui si fermò per un momento e osservò sua moglie. — Io? Rimarrò qui con te, no?
Lei scosse la testa. — Non puoi trascorrere il resto della vita... della mia vita... come un recluso. Sprizzi energia da tutti i pori. Guardati! Non riesci a star fermo.
— È vero, ma...
— Ma cosa? Me la caverò, giuro.
— Già ieri hai avuto un grosso problema, e... — e riprese a muoversi avanti e indietro.
— E...? — disse Sarah.
Lui tacque, rivolgendole la schiena. Ma due persone sposate da una vita sono in grado di completare le frasi lasciate a metà dal partner anche quando il partner preferirebbe di no. — E le cose sono destinate ad andare sempre peggio. È così? — fece Sarah.
Don annuì in modo quasi impercettibile. Poi guardò fuori dalla finestra cromata.
Avevano acquistato la casa nel 1988, subito dopo il matrimonio, grazie al sostegno economico dei rispettivi genitori. All’epoca, lungo il Betty Ann Drive cresceva giusto qualche alberello stentato, a parte un paio di robusti abeti canadesi. Adesso quegli alberelli, piantati dalla municipalità di North York (che ormai non esisteva più come Comune indipendente), si erano trasformati in alti e verdeggianti aceri e querce.
Lui le si avvicinò. — Hai bisogno che io resti con te — disse.
Lei abbassò lo sguardo alla gamba intelaiata. — Ho bisogno di qualcuno, questo sì. Forse Percy...
— Percy tra due settimane riprenderà ad andare a scuola. E Carl ed Emily lavorano entrambi. E noi non possiamo permetterci una badante.
— Potremmo, se... — stavolta fu lei a troncare il discorso.
Il resto della frase avrebbe suonato: “Se vendessimo la casa”.
Lui tornò a guardare fuori dalla finestra. Il ragionamento filava. Per quanto non fosse una reggia, quella casa era troppo grande per loro... lo era da vent’anni, da quando non ci abitava più Emily. Forse venderla sarebbe stata una buona idea.
Inoltre, tutte quelle scale erano un calvario per Sarah. Trasferirsi in un appartamento sarebbe stato più economico e più funzionale.
Don raggiunse l’altrà estremita del salotto, poi girò su se stesso, dirigendo lo sguardo verso sua moglie. L’espressione di lei si rivitalizzò. — Sai cosa farebbe per noi? — disse Sarah. — Un Mozo.
— Mo... zo? — ripeté lui.
Lei annuì. — Sai cosa significa?
— So solo che a Scarabeo farebbe quindici punti.
Sarah sospirò. — È spagnolo. Di per sé significa “servitore”, ma indica anche una linea di robot progettati apposta per assistere le persone anziane.
Don strinse le palpebre. — Costruiscono robe del genere?
— Vedi che ho ragione io? Devi uscire di casa per vedere il mondo. Sì, “costruiscono” robe del genere, se il soggetto è la McGavin Robotics.
Lui si fermò di nuovo. — Anche un robot di fascia bassa costa un patrimonio.
— Certo. Ma Cody è convinto che io abbia un talento speciale per la decodifica dei messaggi alieni, perciò gli dirò che, per la buona riuscita della missione, mi serve un Mozo. E non è una balla. Guadagnerei un sacco di tempo utile, con un servo meccanico che intanto prepara il caffè e tutto quanto. Inoltre, non sarei mai pericolosamente sola, e tu potresti uscire senza preoccuparti.
Don stava per rispondere che l’ultima elemosina ricevuta da McGavin aveva portato solo guai. Poi però si rese conto che Sarah aveva ragione: lui sarebbe impazzito, lì dentro, e poi... bé, un robot domestico avrebbe semplificato un sacco di cose, no?
29
Sembrava un pacco dell’Ikea. Il Mozo arrivò disassemblato dentro una confezione da un metro cubo. Lo spettacolo della testa dentro un sacchetto di plastica era abbastanza truce. Il montaggio delle gambe, disarticolate in due parti, richiese parecchi minuti. Ma, alla fine, si poté ammirare in tutto il suo splendore quel cyborg blu listato d’argento, rivestito di un morbido tessuto che ricordava le tute da sommozzatore. Aveva una testa sferica delle dimensioni di un pallone, con occhi vitrei. Aveva anche una specie di bocca: una linea orizzontale in grado di muoversi per simulare la pronuncia delle parole: per quanto i robot di quel tipo non fossero piuttosto molto diffusi, a quei pochi che li possedevano piaceva vedere sui loro “volti” delle espressioni più o meno umane.
A Don venne spontaneo un confronto tra il servitore meccanico e i protagonisti dei fumetti di quand’era ragazzino. La sua conclusione fu che, a parte la bocca, somigliasse a uno dei protagonisti della serie Magnus — Robot Fighter. Lo ammetteva, possederne uno era troppo fico. E non solo perché realizzava un altro di quei famosi venti desideri in lista d’attesa.
Guardò il Mozo, portandosi le mani ai fianchi. Ecco un altro lusso che, in teoria, era fuori della loro portata. — Bé, che te ne pare?
— Non male — rispose Sarah. — Che dici, lo accendiamo?
Il pulsante si trovava al centro dell’area addominale. Lui lo premette, e...
— Buongiorno — disse una voce maschile, senza accenti particolari. La bocca si muoveva come quella dei personaggi dei cartoni animati. — Do you speak English? Hola, habla Español? Bonjour, parlez-vous français? Konichi-wa, nihongo-o hanashimasu-ka?
— Parliamo inglese — disse Don.
— Buongiorno — ripeté il Mozo. — Questa è la prima volta che vengo attivato da quando sono uscito dalla fabbrica, perciò mi scuso, ma dovrò chiedervi alcune informazioni. Primo: da chi riceverò ordini?
— Da noi due — rispose Don.
Lui annuì con la testa a palla. — Di default, chiamerò lei “signora” e lei “signore”. Tuttavia posso rivolgermi a voi in modo diverso, se preferite.
Don fece un ghigno diabolico. — Io sono il Grande e Onnipotente Oz.
L’espressione somatica del robot fece capire che aveva capito lo scherzo. — Sono onorato di conoscerla, Grande e Onnipotente Oz.
Sarah rivolse al Mozo un’occhiata da “ecco cosa mi tocca sopportare tutti i santi giorni”. Don fece spallucce, e lei disse: — Dacci pure del tu. Lui è Don, io sono Sarah.
— Lieto di fare la vostra conoscenza, Don e Sarah. Quella che state sentendo è la mia voce di default, ma, se ne preferite una femminile o con un particolare accento, non avete che da chiederlo.
Don guardò Sarah, poi rispose: — No, va bene così.
— Ottimo. E avete già scelto un nome per me?
Sarah era indecisa. Passò con un cenno l’incarico a Don, il quale decise: — Gunter.
— Scritto: gi, u, enne, ti, acca, e, erre?
— Senza la acca — rispose Don. — Anche se non te ne importa un’acca.
— Sei il solito bambinone — disse Sarah, sorridendo.
Era una battuta frequente, solo che adesso era diventata quasi realistica. Lei si accorse della gaffe involontaria, e si affrettò ad aggiungere: — Pardon.
Non c’era nulla di cui scusarsi, pensò Don. Dentro di sé aveva conservato molto della propria infanzia, tanto più di fronte a un robot. Come Sarah sapeva bene, il suo robot preferito era quello del vecchio telefilm Lost in Space, e perdeva le staffe ogni volta che qualcuno lo chiamava Robby confondendolo con quello del Pianeta proibito. Anche se era vero che i due si somigliavano, visto che a disegnarli era stata la stessa persona, Robert Kinoshita. Comunque, i veri fan di Lost in Space lo chiamavano B-9, che era il modello di fabbrica, come risultava da un episodio della serie. Però Don controbatteva che in un altro episodio quel barile automatico con braccia come tubi dell’aspirapolvere rispondeva al nome di Gunter, acronimo per General Unity Non-Theorizing Environmental Robot. In settant’anni Don non aveva convertito molta gente a quella teoria, ma adesso almeno un robot con quel nome c’era!