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— Non è una tragedia — disse Leonore, esasperata. — Ma mi rende la vita un inferno, e... — Notò l’espressione di lui. — Che c’è?

— Niente.

— Voglio saperlo.

— Non hai la più pallida idea di che cosa renda la vita un inferno. Andare ai funerali dei propri genitori: quello sì. Vedere il coniuge che lotta contro il cancro: quello sì. Non ricevere una promozione che si merita, perché l’azienda ha deciso diversarnente: quello sì. O dover tirare fuori 20.000 dollari, che non hai, per rifare il tetto...

— E invece so benissimo cosa significano alcune di quelle cose. Mia madre è morta in un incidente quando avevo diciotto anni.

Don si morse la lingua. Non le aveva mai chiesto nulla dei suoi genitcri. Forse perché si sarebbe sentito troppo uguale a loro.

— Non ho mai conosciuto mio padre — continuò Leonore. — Quindi, rimasta orfana, è toccato a me prendermi cura di mio fratello Cole, che all’epoca aveva tredici anni. È per questo che lavoro. Ho una borsa di studio, ma ci sono ancora un sacco di debiti da estinguere in famiglia.

— Mi... ecco...

— Ti dispiace tanto. Sì, dispiace a tutti.

— Non... non aveva un’assicurazione sulla vita?

— Mamma non poteva permettersela.

— Ah... e... come vi siete arrangiati?

Lei alzò le spalle. — Diciamo che ho motivi personali per apprezzare l’opera delle Banche alimentari.

Lui non sapeva che cosa dire. Tutto quello però spiegava perché Leonore sembrasse tanto più matura dei suoi coetanei. “Quando aveva la sua età”, Don faceva la bella vita a spese dei genitori, mentre Leonore era già impegnata nella lotta per la sopravvivenza da sette anni.

— Dov’è Cole adesso? — chiese Don.

— A Vancouver. Ha messo su casa con la sua ragazza poco prima che io venissi qui a completare gli studi.

— Ah.

— Sono una che molto spesso lascia correre, e lo sai — riprese il discorso lei.

— Ma quando qualcuno ti frega dei soldi... e una li ha risicati... allora... — fece spallucce.

Don la guardò negli occhi. — Non mi rendevo conto di quanto fossi insopportabilmente paternalista — snocciolò, lento. — Adesso che mi hai costretto a confrontarmici, mi sforzerò di... — Tacque. Quand’era emozionato, il suo vocabolario tendeva a diventare un po’ ampolloso. Alla fine, concluse: — Stare all’occhio.

— Ti ringrazio — disse lei, ccn un lieve cenno del capo.

— Non prometto che ci riuscirò sempre. Farò del mio meglio.

— Ne sono sicura — rispose lei, con un sorriso paziente che era identico a quello di Sarah. Don le ricambiò il sorriso, poi allargò le braccia invitandola a raggiungerlo. Lei lo fece; lui la strinse forte a sé.

33

La frattura era ancora un bel fastidio per Sarah. Gunter però era una manna dal cielo: adesso, eccolo con un tazzone di decaffeinato, che portò a Sarah ancora immersa nello studio dei documenti nella ex stanza di Carl. Erano le fotocopie del messaggio inviato a Sigma Draconis dalla stazione di Arecibo: le mille risposte scelte a caso tra quelle compilate dai terrestri. Sarah era sicura che la chiave di decrittazione si trovasse da qualche parte lì in mezzo.

Erano passati decenni da quando lei aveva avuto sott’occhio quel materiale, perciò ne conservava solo un vago ricordo. In compenso a Gunter bastava un’occhiata per mappare il testo; perciò, quando Sarah diceva, ad esempio: — C’erano due risposte che mi avevano colpita perché sembravano contraddittorie.

Un tizio aveva risposto “si” alla domanda sull’eutanasia per le persone anziane e improduttive, e “no” alla domanda sull’eliminazione delle persone che costituiscono un peso per la società — il robot la informava: — Era il questionario numero 785.

Ciononostante, Sarah si ritrovava spesso di umore nero; a volte addirittura piangeva per il senso di frustrazione. La sua mente non era più lucida come un tempo. La cosa magari non si notava quando si trattava di preparare la cena o giocare con i nipotini, ma emergeva in tutta la sua drammaticità quando lei si sforzava di eseguire dei calcoli, di concentrarsi, di pensare. Si affaticava in fretta; doveva allungarsi spesso per riposare, il che ritardava ulteriormente la missione.

Molte altre persone, com’era ovvio, si erano buttate allo stesso scopo nell’analisi del messaggio di Arecibo. Se non avevano trovato una soluzione tanti giovani in gamba, anche lei aveva poco di che rallegrarsi.

Secondo molti analisti, la chiave poteva trovarsi in un questionario specifico tra quei mille: una sequenza che compariva una volta sola, come “sì, no, molto più grande, opzione 3, uguale, no, sì, meno” eccetera. In teoria, di combinazioni ce n’erano 20.000 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi (2 seguito da 40 zeri).

Coloro che non avevano accesso al materiale di Arecibo dovevano tirare a caso, ma anche i computer più veloci del pianeta avrebbero impiegato decenni a esaminarle tutte. Gli altri, quelli che avevano sott’occhio i mille questionari compilati, avevano la fortuna di dover provare solo quel numero limitato di sequenze; ma anche loro non avevano cavato un ragno dal buco. Dal canto suo, Sarah continuava a studiare il contenuto delle risposte. Come diceva una vecchia barzelnletta: “I vecchi docenti non muoiono mai, perdono solo le facoltà”. Gli interessati ribattevano che era così divertente che ci si dimenticava di ridere.

Sarah tentò con un’altra sequenza. Sul monitor comparve la scritta DECRITTAZIONE FALLITA. Non abbatté il pugno sulla scrivania perché era troppo debole per farlo, ma Gunter interpretò ugualmente bene il suo linguaggio somatico. — Sembri delusa — disse.

Lei ruotò sulla sedia girevole per guardare in faccia il Mozo. E le balenò un’idea: Gunter era un’intelligenza non-umana. Forse a lui poteva essere più chiara la forma mentis degli alieni. — Senti. Se avessi criptato tu il messaggio, quale chiave avresti scelto?

— Non saprei. Non ho la tendenza a nascondere le mie opinioni — rispose lui.

— Questo è vero...

— Hai provato a chiedere a Don? — propose Gunter, in tono piatto.

Sarah sollevò un sopracciglio. — Perché dici questo?

La bocca artificiale si distorse come se il robot si fosse morso la lingua; poi lui rispose: — Per nessun motivo particolare.

Sarah stava per lasciare perdere, quando...

Maledizione, Don aveva la sua confidente. E lei no? — Pensi che io non lo sappia?

— Sappia cosa? — chiese Gunter.

— Per favore! Sono in grado di interpretare i segnali dallo spazio, e non saprei cogliere quelli che ho intorno a me?

Impossibile, però, interpretare lo sguardo del robot. — Ah — disse.

— Tu sai chi è lei?

Il Mozo scosse la testa blu. — No. E tu?

— No, e non voglio saperlo.

— Se posso permettermi... come vivi questa situazione?

Sarah guardò fuori dalla finestra. Si vedeva un pezzo di cielo e il tetto della casa accanto. — Non è precisamente ciò che avevo sempre sognato, ma...

Il Mozo tacque. La sua pazienza era programmaticamente infinita. Alla fine, Sarah proseguì: — Ma mi rendo conto che lui ha dei... — Era indecisa se dire “desideri” o “bisogni”; scelse la seconda. — E da parte mia non posso... Non si possono far tornare indietro le lancette dell’orologio. — L’ultima frase doveva veicolare l’idea di una cosa impossibile (a parte il fatto che le lancette erano fuori moda da un pezzo), ma a ben pensarci a Don era successo proprio quello. — Io e lui non siamo più sincronizzati. — Rimase in silenzio per un po’, poi guardò il robot. — E tu? Come ti fa sentire questa situazione?