«C’era già molto tempo prima che li portassi qui», disse, «Molti son venuti a praticare i loro culti su quest’isola. Forse esisteva già prima che loro venissero.»
Mi fece di nuovo un cenno con la tipica pazienza. I suoi occhi erano colmi di tenerezza.
«Non aver paura», ripeté mentre riprendeva a scendere.
Mi sarei vergognato di non seguirlo. I gradini continuavano all’infinito.
Arrivammo a passaggi più ampi e al rumore del mare. Sentivo la spuma fredda sulle mani e sul viso, vedevo il brillio dell’acqua sulle pietre. Ma continuammo la discesa. Gli echi dei nostri passi riverberavano contro la volta e le pareti rozzamente rifinite. Era più profonda di qualunque segreta, era l’abisso che scavi nell’infanzia quando ti vanti con tua madre e tuo padre che farai una galleria fino al centro della terra.
Finalmente, superata un’altra curva, vidi uno sprazzo di luce. E due lampade che ardevano davanti a due battenti.
Gli stoppini delle lampade erano alimentati da grossi recipienti d’olio. E i battenti erano sbarrati da un’enorme trave di quercia. Sarebbero stati necessari diversi uomini per sollevarla, e forse avrebbero dovuto servirsi di corde e leve.
Marius alzò la trave e la posò agevolmente; quindi indietreggiò e guardò la porta. Sentii il suono di un’altra trave che si muoveva all’interno. Poi i battenti si aprirono pian piano e a me mancò il respiro.
Non era solo perché Marius aveva aperto la porta senza toccarla. L’avevo già visto farlo. Ma la stanza era piena degli stessi fiori bellissimi e delle lampade accese che avevo visto di sopra, nella casa. Lì, nelle profondità della terra, c’erano gigli candidi e cerei, scintillanti di gocciole di rugiada, rose dalle ricche sfumature rosate e rosse, pronte a cadere dai tralci. Era una cappella, quella camera con la luce dolce delle candele votive e il profumo di mille mazzi di fiori
Le pareti erano affrescate come quelle delle antiche chiese italiane, con foglie d’oro inserite nei motivi. Ma non c’erano immagini di santi cristiani.
Palme egizie, il deserto giallo, le tre piramidi, le acque azzurre del Nilo. E donne e uomini egizi, sulle imbarcazioni aggraziate che navigavano sul fiume, e i pesci multicolori sotto di loro, gli uccelli dalle ali purpuree in volo nell’aria.
E l’oro inserito in ogni cosa. Nel sole che splendeva dal cielo, nelle piramidi che brillavano in distanza, nelle squame dei pesci e nelle piume degli uccelli, e negli ornamenti delle delicate figure egizie che stavano immote e guardavano in avanti, a bordo delle lunghe barche verdi.
Chiusi gli occhi per un momento. Li riaprii pian piano e vidi un grande sacrario.
Filari di gigli su un basso altare di pietra dove stava un immenso tabernacolo d’oro coperto dalle fini iscrizioni egizie. E l’aria discendeva da pozzi profondi scavati nella roccia, e agitava le fiamme delle lampade perpetue, faceva ondeggiare le foglie verdi dei gigli che, nei vasi pieni d’acqua, esalavano un profumo inebriante.
Mi sembrava quasi di udire gli inni, i canti, le antiche invocazioni. E non avevo più paura. La bellezza era troppo rasserenante, troppo grandiosa.
Ma fissai le ante dorate del tabernacolo sull’altare. Il tabernacolo era più alto di me, e tre volte più largo.
Anche Marius lo guardava. Sentii il potere irradiarsi da lui, il calore della sua forza invisibile, e udii scorrere la serratura interna.
Se avessi osato, mi sarei avvicinato un po’ di più. Trattenni il respiro mentre i battenti d’oro si aprivano e rivelavano due splendidi statue egizie, un uomo e una donna, sedute a fianco a fianco.
La luce investì i volti bianchi magnificamente scolpiti, le membra candide disposte in atteggiamento decoroso, lampeggiò negli occhi scuri.
Erano solenni come tutte le statue egizie, sobrie, magnifiche nella loro semplicità; solo l’espressione aperta e infantile dei volti alleviava la sensazione di freddo e di durezza. Ma, diversamente da tutte le altre, avevano capelli veri e indumenti di vera stoffa.
Nelle chiese italiane avevo visto numerosi santi vestiti in quella maniera con velluti drappeggiati sul marmo, e non sempre l’effetto era gradevole.
Ma in questo caso era stato fatto con grande cura. Le parrucche erano formate da folte ciocche nere, tagliate a frangia sulla fronte e coronate da cerchietti d’oro. Intorno alle braccia nude spiccavano bracciali a forma di serpenti, e le dita erano ornate di anelli.
Gli abiti erano di finissimo bianco; l’uomo era nudo fino alla cintola e portava una specie di gonnellino; la donna una lunga veste aderente e pieghettata. Entrambi avevano molte collane d’oro, tempestate di pietre preziose.
Erano quasi delle stesse dimensioni e stavano seduti nello stesso modo, con le mani posate piatte sulle cosce. E la somiglianzà mi stupiva come la loro bellezza così semplice e la qualità gemmea degli occhi.
Non avevo mai visto in altre statue un atteggiamento così vivo, anche se in realtà in loro non c’era niente che facesse pensare alla vita. Forse era un effetto dell’abbigliamento, del brillio delle luci sulle collane e sugli anelli e dei riflessi nei loro occhi.
Erano Osiride e Iside? Era una scrittura minutissima quella che vedevo sulle collane e sui cerchi che gli cingevano i capelli?
Marius non diceva nulla. Si limitava a guardarli come facevo io, con un’espressione indecifrabile e forse triste.
«Posso avvicinarmi?» mormorai.
«Certo.»
Mi avvicinai all’altare come un bambino in una cattedrale, sempre più incerto a ogni passo. Mi fermai a poca distanza da loro e li guardai negli occhi. Oh, erano troppo splendidi, così profondi e variegati. Troppo reali.
Ogni ciglio nero era fissato con cura infinita, e lo stesso ogni sopracciglio, sulle fronti dolcemente incurvate.
Con cura infinita le loro bocche erano state rappresentate socchiuse in modo che si potesse scorgere il luccichio dei denti. E volti e braccia erano levigati, così che nessun difetto ne turbasse lo splendore. E, come tutte le statue e le figure dipinte che guardano direttamente in avanti, sembravano fissarmi.
Ero confuso. Se non erano Osiride e Iside, chi rappresentavano? Quale antica verità simboleggiavano, e perché c’era quell’imperativo nell’antica frase, Coloro-che-devono-essere-conservati?
Cominciai a contemplarli, con la testa leggermente piegata da una parte.
Gli occhi erano castani con pupille nere, il bianco sembrava umido come se fosse coperto di lacca trasparente e le labbra avevano una sfumatura lievissima di rosa cinereo.
«Posso…?» mormorai, voltandomi verso Marius. Ma mi interruppi.
«Puoi toccarli», disse lui.
Tuttavia mi sembrava un sacrilegio. Li fissai ancora per un momento, guardai le mani aperte sulle cosce, le unghie che apparivano straordinariamente simili alle nostre… come se fossero di vetro.
Pensai che potevo toccare il dorso della mano dell’uomo, e non sarebbe stato un sacrilegio; ma in realtà volevo toccare il volto della donna. Alla fine tesi le dita, esitando, verso la sua guancia. E sfiorai con i polpastrelli la superficie candida. Poi la guardai negli occhi.
Non era pietra, quella che toccavo. Non poteva esserlo… Sembrava esattamente… E gli occhi della donna… qualcosa…
Balzai indietro, incapace di trattenermi.
Fu un movimento così fulmineo che rovesciai i vasi di gigli e andai a sbattere contro il muro, accanto alla porta.
«Sono vivi!» dissi. «Non sono statue! Sono vampiri come noi!»
«Sì», disse Marius. «Tuttavia non capirebbero questa parola.»
Era un passo più avanti di me e continuava a guardarli, con le mani lungo i fianchi.
Si voltò lentamente e mi si avvicinò. Mi prese la destra.
Il sangue mi era affluito al volto. Volevo dirgli qualcosa ma non potevo. Continuavo a fissare le due figure, e lui, e la mano bianca che teneva la mia.