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«Va bene così», disse in tono quasi triste. «Non credo che gli dispiaccia se li tocchi.»

Per un momento rimasi attonito. Poi compresi. «Vuoi dire che tu… Neppure tu sai… Loro stanno lì e… oh, Dio!»

Le sue parole mi giunsero da una distanza di secoli, dal racconto di Armand: Coloro-che-devono-essere-conservati sono in pace o in silenzio. Più di questo non sapremo mai.

Rabbrividivo. Non riuscivo a dominare i tremiti delle braccia e delle gambe.

«Respirano, pensano, sono vivi come noi», balbettai. «Da quanto tempo sono così, da quanto tempo?»

«Calmati», mi disse Marius accarezzandomi la mano.

«Oh, Dio», ripetei stupidamente. Continuai a ripeterlo. Le altre parole non bastavano. «Ma chi sono?» chiesi alla fine. La mia voce era diventata stridula. «Osiride e Iside? Sono loro?»

«Non lo so.»

«Voglio allontanarmi. Voglio uscire da qui!»

«Perché?»

«Perché… perché sono vivi, prigionieri nei loro corpi, e non possono… non possono parlare né muoversi.»

«Come sai che non possono?» chiese Marius. La voce era sommessa e serena come prima.

«Ma non possono. Ecco. Non…»

«Suvvia», disse Marius. «Voglio che li guardi ancora un po’. Poi ti ricondurrò di sopra e ti dirò tutto, come avevo promesso.»

«Non voglio più guardarli, Marius, davvero», risposi cercando di liberare la mano e scuotendo la testa. Ma mi teneva saldamente come una statua, sembrava, e non potevo fare a meno di pensare che la sua pelle era simile alla loro, e stava assumendo la stessa lucentezza impossibile, e quando il suo volto era in riposo era liscio quanto il loro!

Aveva finito per assomigliargli. E in un futuro racchiuso nell’eternità, anch’io sarei diventato come lui. Se fossi sopravvissuto tanto a lungo.

«Ti prego, Marius…» dissi. Avevo superato la vergogna e la vanità. Volevo uscire dalla cappella.

«Allora aspettami», disse lui, paziente. «Resta qui.»

Mi lasciò la mano. Si voltò a guardare i fiori che avevo calpestato, l’acqua rovesciata.

E sotto il mio sguardo tutto ritornò a posto: i fiori tornarono nel vaso e l’acqua sparì dal pavimento.

Marius guardava i due, e io udivo i suoi pensieri. Si rivolgeva a loro in un modo personale che non richiedeva titoli o formule di omaggio. Spiegava perché era rimasto lontano quelle ultime notti. Era andato in Egitto. E aveva portato doni per loro, che presto avrebbe consegnato. E tra poco li avrebbe portati fuori a guardare il mare.

Cominciai a calmarmi un po’. Ma la mia mente esaminava tutto ciò che era diventato chiaro nel momento del trauma. Era affezionato a loro. Aveva sempre avuto cura di loro. Aveva reso bella quella camera perché la guardavano e forse gradivano la bellezza dei dipinti e dei fiori.

Ma lui non sapeva. E a me bastava guardarli per provare orrore, come se fossero vivi e prigionieri in se stessi.

«Non lo sopporto», mormorai. Sapevo, senza che me lo dicesse, la ragione per cui lui li conservava. Non poteva seppellirli nel profondo del suolo perché erano coscienti. Non poteva bruciarli perché erano immobilizzati e non potevano dare il loro consenso. Oh, Dio, di male in peggio.

Ma li conservava, come gli antichi pagani tenevano gli dèi nei templi che erano le loro case. Gli portava i fiori.

E adesso accendeva per loro l’incenso, un piccolo pane che aveva tolto da un drappo di seta. Disse loro che veniva dall’Egitto, e lo mise a bruciare in un piatto di bronzo.

I miei occhi si riempirono di lacrime. Cominciai a piangere.

Quando alzai la testa, voltava loro la schiena. Li vedevo al di sopra della sua spalla. Era incredibilmente simile a loro, una statua vestita di stoffe. E pensai che forse lo faceva apposta, ad atteggiare il viso in un’espressione vacua.

«Ti ho deluso, vero?» sussurrai.

«No, affatto», rispose. «No.»

«Mi dispiace di…»

«No.»

Mi avvicinai un po’. Capivo di essere stato scortese verso Coloro-che-devono-essere-conservati. Ero stato scortese con lui. Mi aveva rivelato quel segreto e io avevo mostrato orrore e ribrezzo. Avevo deluso me stesso.

Mi avvicinai ancora di più. Volevo rimediare a ciò che avevo detto. Mi voltai di nuovo verso di loro, e Marius mi cinse con un braccio. L’incenso era inebriante. I loro occhi scuri erano pieni dei bizzarri movimenti delle fiamme delle lampade.

Non si scorgevano le vene attraverso la pelle bianca, non c’erano grinze né pieghe, neppure le linee sottili nelle labbra, che Marius aveva ancora. Non si muovevano nel respiro.

E, mentre ascoltavo nel silenzio, non udii neppure un loro pensiero, un battito del cuore, un movimento del sangue. «Ma c’è, vero?» sussurrai. «Sì.»

«E tu…?» Tu porti qui le vittime, avrei voluto dire. «Non bevono più.»

Anche questo era terribile. Non avevano neppure il piacere. E tuttavia era orribile immaginare come poteva essere… loro che tornavano a muoversi il tempo sufficiente per prendere la vittima e poi ripiombavano nell’immobilità. No, avrei dovuto sentirmi sollevato. Ma non era così.

«Molto tempo fa bevevano ancora, ma solo una volta l’anno. Lasciavo le vittime nel sacrario… malfattori deboli e prossimi alla morte. Poi tornavo e trovavo che erano stati presi, e Coloro-che-devono-essere-conservati erano esattamente come prima. Solo il colore della loro pelle era un po’ diverso. Non era stata sparsa una sola goccia di sangue.

«Questo avveniva sempre al plenilunio, di solito in primavera. Altre vittime che lasciavo non venivano prese. Poi, anche questo banchetto annuale cessò. Continuai a portare vittime, ogni tanto. E una volta, dopo un decennio, ne presero un’altra. Al plenilunio e in primavera. Poi nulla per quasi mezzo secolo. Persi il conto. Pensavo che forse dovevano vedere la luna, che dovevano conoscere il mutare delle stagioni. Ma poi scoprii che non aveva importanza.

«Non hanno bevuto nulla da prima che li portassi in Italia, trecento anni fa. Non bevono neppure nel caldo dell’Egitto.»

«Ma quando accadeva, lo vedevi con i tuoi occhi?»

«No.»

«Non li hai mai visti muoversi?»

«No… fin dall’inizio.»

Tremavo di nuovo. Mentre li guardavo, mi parve di vederli respirare, di veder cambiare le loro labbra. Sapevo che era un’illusione. Ma mi sentivo impazzire. Dovevo uscke di fi, o avrei ricominciato a piangere.

«A volte, quando vengo da loro», disse Marius, «trovo qualcosa di cambiato.»

«Che cosa? Come?»

«Piccole cose.» Li guardò pensosamente, tese la mano e toccò la collana della donna. «Questa le piace. A quanto pare è come deve essere. Ce n’era un’altra che trovavo rotta sul pavimento.»

«Allora possono muoversi.»

«Dapprima pensai che la collana fosse caduta. Ma dopo averla riparata tre volte, compresi che era assurdo. Lei se la strappava dal collo, oppure la faceva cadere con il pensiero.»

Sussurrai, inorridito. E poi mi sentii mortificato di essermi comportato così in presenza della donna. Avrei voluto andarmene immediatamente. Il suo volto era come uno specchio della mia immaginazione. Le sue labbra s’incurvavano in un sorriso ma non si muovevano.

«È accaduto con altri ornamenti, che recavano incisi i nomi di divinità che loro non amano, credo. Una volta un vaso che portai da una chiesa si ruppe. Era ridotto in frammenti minuscoli, forse dai loro sguardi. E ci sono stati anche altri cambiamenti sconcertanti.»

«Dimmi.»

«Mi è capitato di entrare nel sacrario e di trovare l’uno o l’altra in piedi.»

Questo era davvero terrificante. Avrei voluto afferrarlo per la mano e trascinarlo fuori.

«Una volta ho trovato lui a qualche passo dal seggio. E un’altra volta, la donna accanto alla porta.»