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«Cercava di uscire?» mormorai.

«Forse», rispose pensosamente Marius. «Ma potrebbero uscire facilmente, se volessero. Quando avrai ascoltato tutta la storia, potrai giudicare. Ogni volta che li ho trovati spostati, li ho riportati al loro posto, ho risistemato le loro membra come prima. Sono come pietra flessibile, se riesci a immaginarlo. E se io ho tanta forza, puoi pensare quale può essere la loro.»

«Hai detto… se volessero. E se invece volessero e non potessero più? Se per lei fosse il limite massimo dello sforzo, raggiungere la porta?»

«Io credo che avrebbe potuto spezzarla, se avesse voluto. Se io posso aprire la serratura con la mente, lei che cosa non potrebbe fare?»

Guardai i loro visi freddi e distanti, le guance incavate, le bocche grandi e serene.

«Ma se t’ingannassi? E se potessero udire ogni parola che ci stiamo dicendo e fossero incolleriti e sdegnati…»

«Io credo che ci sentano», disse Marius, cercando ancora di calmarmi, con la mano sulla mia, in tono sommesso. «Ma non credo che se ne curino. Altrimenti si muoverebbero.»

«Ma come puoi saperlo?»

«Fanno altre cose che richiedono grande forza. Per esempio, a volte io chiudo il tabernacolo, e loro lo aprono subito e spalancano le ante. So che sono loro perché sono i soli che possano farlo. Allora li porto fuori a vedere il mare. E prima dell’alba, quando vado a prenderli, sono più pesanti e meno flessibili, ed è quasi impossibile muoverli. A volte penso che facciano queste cose per tormentarmi, per prendersi gioco di me.»

«No. Tentano, e non ci riescono.»

«Non essere così precipitoso nel giudicare», disse Marius. «Sono entrato nel sacrario e ho trovato prove di cose molto strane. E naturalmente vi sono le cose che accadevano all’inizio…»

Marius s’interruppe. Qualcosa l’aveva distratto.

«Senti i loro pensieri?» chiese. Sembrava in ascolto.

Non rispose. Li stava studiando. E pensai che qualcosa era cambiato. Feci appello a tutta la mia forza di volontà per voltarmi e fuggire. Li guardai con attenzione. Non vidi nulla, non udii nulla, non sentii nulla. Mi sarei messo a urlare, se Marius non avesse spiegato perché aveva sgranato gli occhi.

«Non essere tanto impetuoso, Lestat», disse finalmente con un sorriso, senza distogliere lo sguardo dall’uomo. «Ogni tanto li sento; ma è inintelligibile… è soltanto la loro presenza… conosci il suono.»

«E tu li hai appena uditi.»

«Ssssì… Forse.»

«Marius, ti prego, usciamo da qui. Ti supplico. Perdonami, ma non lo sopporto. Ti prego, Marius, andiamo.»

«Sta bene», disse gentilmente. Mi strinse la spalla. «Ma prima fa’ una cosa per me.»

«Qualunque cosa.»

«Parlagli. Non è necessario che lo faccia a voce alta. Digli che li trovi bellissimi.»

«Lo sanno», dissi io. «Sanno che li trovo di una bellezza indescrivibile.» Ne ero certo. Marius, però, voleva che glielo dicessi nel modo cerimoniale; perciò sgombrai la mente da tutte le paure e da tutte le supposizioni assurde, e glielo dissi.

«Parlagli», insistette Marius.

Obbedii. Guardai negli occhi dell’uomo e negli occhi della donna. E una sensazione strana s’insinuò in me. Ripetevo la frase Vi trovo bellissimi, vi trovo bellissimi nella forma più vaga delle parole. Pregavo come quando ero piccolo e stavo disteso nel prato, sul fianco della montagna, e chiedevo a Dio di aiutarmi ad andarmene dalla casa di mio padre.

Adesso parlavo così a lei, e le dicevo che ero grato perché mi era stato permesso di giungerle tanto vicino, e quella sensazione diventava fisica. Era sulla superficie della mia pelle, nelle radici dei miei capelli. Sentivo la tensione defluire dalla mia faccia e dal mio corpo. Ero leggero, e l’incenso e i fiori avvolgevano il mio spirito mentre fissavo le pupille nere dei profondi occhi castani.

«Akasha», dissi a voce alta. Udii il nome nello stesso momento in cui lo pronunciai. Mi sembrò bellissimo. Tremai. Il tabernacolo divenne un confine fiammeggiante intorno a lei, e dove stava la figura maschile c’era solo qualcosa d’indistinto. Mi avvicinai senza volere, mi tesi e quasi le baciai le labbra. Lo desideravo. Mi avvicinai ancora di più. Sentii le sue labbra.

Volevo che il sangue mi affluisse alla bocca e passasse a lei, come avevo fatto quella volta con Gabrielle, mentre giaceva nella bara.

L’incantesimo diventava più profondo, e io guardavo nell’abisso dei suoi occhi.

Che cosa mi succede? Sto baciando la dea sulla bocca! Sono pazzo a pensarlo!

Indietreggiai. Mi trovai di nuovo contro la parete, tremante, con le mani sulle tempie. Questa volta non avevo rovesciato i gigli, ma piangevo ancora.

Marius chiuse le ante del tabernacolo. Fece scorrere il catenaccio interno.

Tornammo nel corridoio, e Marius sollevò la sbarra interna e la bloccò. Mise a posto con le mani la sbarra esterna.

«Vieni», disse. «Saliamo.»

Ma avevamo percorso pochi passi quando sentimmo uno scatto netto, quindi un altro. Marius si voltò.

«L’hanno rifatto», disse. Un’espressione di affanno divideva il suo volto come un’ombra.

«Che cosa?» Arretrai contro il muro.

«Il tabernacolo. L’hanno aperto. Vieni, tornerò più tardi a chiuderlo, prima che sorga il sole. Ora saliremo nel mio salotto e ti racconterò la mia storia.»

Quando arrivammo nella stanza illuminata, mi lasciai cadere sulla poltrona e mi strinsi la testa fra le mani. Marius era rimasto in piedi a guardarmi. Quando me ne accorsi, alzai gli occhi.

«Lei ti ha detto il suo nome», disse.

«Akasha!» dissi io. Era come strappare una parola dal turbine d’un sogno in dissoluzione. «Me l’ha detto lei! Ha pronunciato il nome di Akasha.» Lo guardai, invocando una risposta, una spiegazione per il modo in cui mi guardava.

Pensavo che sarei impazzito se il suo volto non fosse ridiventato espressivo.

«Sei in collera con me?»

«Sttt. Taci.», disse Marius.

Non udivo nulla nel silenzio. Tranne il mare, forse. Forse il suono degli stoppini delle candele. Forse il vento. Neppure i loro occhi mi erano parsi privi di vita più di quanto lo fossero gli occhi di Marius in quel momento.

«Tu smuovi qualcosa dentro di loro», sussurrò.

Mi alzai. «Cosa significa?»

«Non lo so. Forse nulla. Il tabernacolo è ancora aperto e loro stanno immobili come sempre. Chissà?»

All’improvviso ebbi coscienza di tutti i lunghi anni in cui aveva desiderato sapere. Dovrei dire secoli, ma non riesco a immaginare i secoli, neppure ora. Sentivo tutti gli anni in cui aveva cercato di ottenere da loro qualche segno e non aveva avuto nulla; e sapevo che si domandava perché io ero riuscito ad avere da lei il segreto del suo nome: Akasha. Erano accadute molte cose, ma al tempo di Roma. Cose tenebrose, cose terribili. Sofferenze, sofferenze indicibili.

Le immagini sbiancarono. Silenzio. Marius sembrava un santo tolto da un altare e abbandonato nella navata di una chiesa.

«Marius!» bisbigliai.

Si scosse, il suo viso si animò lentamente. Mi guardò con affetto e quasi con stupore.

«Sì, Lestat», disse stringendomi la mano per rassicurarmi.

Sedette e mi indicò di fare altrettanto. Ci fronteggiavamo di nuovo, sulle comode poltrone. La luce placida era rassicurante. Ed era rassicurante vedere, al di là delle finestre, il cielo notturno.

Stava ritrovando l’animazione, il brillio del buonumore negli occhi.

«Non è ancora mezzanotte», disse. «E sulle isole tutto è tranquillo. Se non verrò disturbato, credo che avrò il tempo di raccontarti tutto.»

5.

La storia di Marius