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Sentivo l’ansia crescente di Louis. Un branco di giovani sfondò il cordone di polizia e venne a premere contro il finestrino dalla sua parte, mentre il corteo svoltava bruscamente e avanzava verso l’orrendo edificio a forma di tubo.

Ero affascinato da quanto stava accadendo. L’irrequietezza che avevo dentro stava per giungere al culmine. Più volte i fan circondavano la macchina prima di venire respinti; e incominciavo a rendermi conto di aver sottovalutato quell’esperienza.

Gli spettacoli rock filmati che avevo visto non mi avevano preparato alla cruda elettricità che già mi investiva, il modo in cui la musica già vibrava nella mia testa e la rapidità con cui svaporava la vergogna per la mia vanità mortale.

Entrare nella sala fu un problema. Tra due file di guardie, corremmo nella zona degli artisti, protetta da un servizio di sicurezza. Tough Cookie mi stava aggrappata e Alex spingeva Larry davanti a sé.

I fan cercavano di strappare i capelli e i manti. Attirai a me Louis e lo portai con noi.

E poi, nei camerini, lo sentii per la prima volta… il suono bestiale della folla… quindicimila anime che cantavano e urlavano sotto un unico tetto.

No, non tenevo sotto controllo la gioia ardente che mi faceva rabbrividire. Quando mi era mai accaduto di provare quella sensazione che era quasi ilarità?

Andai a sbirciare il pubblico dell’auditorium. C’erano mortali sui due lati del lungo ovale, su fino al soffitto. E, nell’immenso centro aperto, una folla di migliaia di giovani che ballavano, si scambiavano carezze, si spintonavano nella penombra fumosa e cercavano di avvicinarsi al palcoscenico. Gli odori dell’hashish, della birra e del sangue umano vorticavano nelle correnti della ventilazione.

I tecnici gridavano che eravamo pronti. Il trucco era stato ritoccato, i mantelli di velluto nero erano stati spolverati, le cravatte nere assestate. Non era il caso di far attendere ancora la folla.

Fu dato l’ordine di spegnere le luci. Un grande urlo disumano si levò nell’oscurità, salì lungo le pareti. Lo sentivo nel pavimento sotto di me. Divenne più forte quando uno stridente ronzio elettronico annunciò il collegamento delle «apparecchiature».

La vibrazione mi passò nelle tempie, e fu come se mi venisse rimosso uno strato di pelle. Strinsi il braccio di Louis, gli diedi un lungo bacio, e poi sentii che mi lasciava andare.

Al di là del sipario gli spettatori fecero scattare gli accendini e migliaia e migliaia di fìammelle tremolarono nel buio. Risuonarono applausi ritmici che poi si smorzarono, e il frastuono aumentò e diminuì, lacerato da urla improvvise. Mi girava la testa.

Eppure pensavo al teatro di Renaud, tanto tempo prima. Lo vedevo. Ma l’auditorio sembrava il Colosseo romano. La realizzazione dei nastri, dei video… era stato un lavoro così controllato, così freddo. Non mi aveva fatto presagire tutto questo.

Il tecnico diede il segnale, e poi balzammo oltre il sipario. I mortali brancolavano un po’, perché non vedevano niente mentre io mi muovevo senza fatica tra cavi e fili.

Arrivai al proscenio, sopra le teste della folla urlante. Alex era alla sezione ritmica, Tough Cookie aveva in mano la piatta, luccicante chitarra elettrica, Larry era all’enorme tastiera circolare del sintetizzatore. Mi guardai intorno e alzai gli occhi verso i giganteschi teleschermi che avrebbero ingrandito le nostre immagini per offrirle a tutti i presenti. Poi li riabbassai sul mare di giovani che urlavano.

Ondate di rumore ci investirono salendo dall’oscurità. Sentivo l’odore del caldo e del sangue.

Poi si accese la batteria di riflettori. Raggi violenti d’argento, azzurro e rosso s’incrociarono, ci avvolsero, e le urla raggiunsero vertici incredibili. Tutti gli spettatori erano in piedi.

Sentivo la luce strisciare sulla mia pelle bianca, esplodere nei miei capelli biondi. Mi guardai intorno e vidi i miei mortali splendenti e già frenetici mentre si appollaiavano tra i fili e le impalcature argentee. Il sudore mi sgorgò dalla fronte quando vidi tutt’intorno i pugni levati in segno di saluto. E nella sala c’erano moltissimi giovani con i costumi da vampiro, le facce lucide di sangue artificiale. Alcuni portavano parrucche bionde, altri avevano cerchi neri dipinti intorno agli occhi, che davano loro un aspetto ancora più innocente e terribile. Fischi e sibili e grida rauche sovrastavano talvolta il frastuono generale.

No, non era come realizzare i video. Non era come cantare nelle sale dello studio con aria condizionata e pareti rivestite di sughero. Era un’esperienza umana resa vampiresca, come era vampiresca la musica, come le immagini del video erano le immagini dell’estasi del sangue. Rabbrividivo per l’esaltazione, e il sudore rosso mi colava sulla faccia.

I riflettori sciabolarono sul pubblico, lasciandoci immersi in un crepuscolo mercuriale, e dovunque si posava la luce gli spettatori andavano in convulsioni e raddoppiavano le grida.

Che cos’era quel suono? Rivelava l’uomo trasformato in folla… le orde che circondavano la ghigliottina, gli antichi romani che chiedevano il sangue dei cristiani. E i celti radunati nel bosco sacro in attesa di Marius divenuto dio. Vedevo il bosco come l’avevo visto quando Marius mi aveva raccontato la sua storia: le torce erano più livide di quei raggi colorati? Gli orrendi giganti di vimini erano più grandi delle scale d’acciaio che sostenevano le file degli altoparlanti e i riflettori incandescenti intorno a noi?

Ma qui non c’era violenza, non c’era morte… solo l’esuberanza infantile che scaturiva dalle bocche dei giovani e dai corpi giovani, un’energia concentrata e contenuta con la stessa naturalezza con cui si scatenava.

Un’altra zaffata di hashish dalle prime file. Motociclisti con i capelli lunghi, tutti vestiti di pelle, con bracciali di cuoio borchiato, che battevano le mani sopra la testa… sembravano fantasmi dei celti, con le chiome barbariche sulle spalle. E da tutti gli angoli di quel luogo pieno di fumo saliva un’ondata priva di inibizioni di qualche cosa che sembrava amore.

Le luci lampeggiavano e il movimento della folla appariva frammentato, come se avvenisse a scatti e sussulti.

Cantilenavano all’unisono, e il volume continuava a crescere: LESTAT, LESTAT, LESTAT.

Oh, era divino. Quale mortale poteva resistere a quella condiscendenza a quella venerazione? Strinsi i bordi del mio mantello nero. Era il segnale. Scossi i capelli. E quei gesti scatenarono una corrente di nuove urla nella sala.

Le luci puntarono sul palcoscenico. Sollevai il manto come due ali di pipistrello.

Le urla si fusero in un immane ruggito compatto.

«IO SONO IL VAMPIRO LESTAT!» gridai con tutta la forza dei miei polmoni, mentre indietreggiavo dal microfono. Il suono era quasi visibile e pareva inarcarsi sull’intera lunghezza del teatro ovale. È rumore della folla salì ancora più alto e più forte, come per divorare quel suono vibrante.

«AVANTI, VOGLIO SENTIRVI! VOI MI AMATE!» gridai all’improvviso senza riflettere. Dovunque gli spettatori pestavano i piedi, sul pavimento e sui sedili.

«QUANTI DI VOI VORREBBERO ESSERE VAMPIRI?»

Il ruggito divenne un tuono. Molti spettatori cercavano di arrampicarsi sul palcoscenico, e le guardie lì tiravano indietro. Uno dei motociclisti irsuti balzava su e giù, stringendo nelle mani due lattine di birra.

Le luci divennero più vivide, come il bagliore di un’esplosione. E dagli altoparlanti e dalle apparecchiature dietro di me salì il fragore di una locomotiva col motore al massimo, come se un treno stesse correndo sull’assito.

Ogni altro suono nell’auditorium ne fu inghiottito. La folla danzava e si dondolava davanti a me. Poi venne la furia penetrante e fremente della chitarra elettrica. La sezione ritmica rombò in una cadenza di marcia, e il suono della locomotiva prodotto dal sintetizzatore salì ancor più, eruppe in un ribollire gorgogliarne, a tempo di marcia. Era venuto il momento di incominciare a cantare. Le frasi puerili guizzavano sopra l’accompagnamento: