Poi Renaud, il vecchio direttore, la tirò via. «D’accordo, Lestat», disse come se fosse stizzito per qualche ragione. «D’accordo, te la sei cavata abbastanza bene, ti lascerò recitare regolarmente d’ora in poi.»
Ma, prima che cominciassi a saltare per la gioia, intorno a noi si materializzò metà della compagnia. E Luchina, una delle attrici, intervenne. «Oh, no, non lo lascerai recitare regolarmente!» disse. «È l’attore più bello del Boulevard du Temple e lo scritturerai subito, e lo pagherai, e lui non dovrà più toccare scope o strofinacci.» Ero terrorizzato. La mia carriera era appena incominciata e pensavo che già stesse per finire; ma, con mia grande sorpresa, Renaud accettò tutte quelle condizioni.
Naturalmente ero lusingatissimo di sentirmi dire che ero bello; e sapevo che Lelio, l’amoroso, doveva avere un notevole stile. Un aristocratico era perfetto per la parte.
Ma, se volevo fare in modo che il pubblico parigino si accorgesse davvero di me, se volevo che parlassero di me alla Comédie-Francaise, dovevo essere qualcosa di più di un angelo biondo caduto sul palcoscenico da una famiglia marchionale. Dovevo essere un grande attore, ed ero deciso a diventarlo.
Quella sera Nicolas e io festeggiammo con una sbronza colossale. Invitammo tutta la compagnia nel nostro appartamento, e io mi arrampicai sul tetto scivoloso, spalancai le braccia a Parigi e Nicolas suonò il violino alla finestra fino a che svegliammo tutto il vicinato.
La musica era divina, tuttavia la gente ringhiava e urlava nei vicoli e batteva su pentole e tegami. Non gli badammo. Ballavamo e cantavamo come avevamo fatto nel luogo delle streghe. Per poco non caddi dal davanzale della finestra.
L’indomani, con la bottiglia in mano, dettai tutta la storia allo scrivano italiano sotto il sole fetido del Cimitero degli Innocenti, e mi assicurai che la lettera indirizzata a mia madre partisse subito. Avevo voglia di abbracciare tutti coloro che vedevo per le strade. Ero Lelio. Ero un attore.
In settembre avevo il mio nome sui programmi. Mandai a mia madre anche quelli.
E non interpretavamo la vecchia commedia. Recitavamo la farsa di uno scrittore famoso che, in seguito a uno sciopero generale dei drammaturghi, non riusciva a farla rappresentare alla Comédie-Francaise.
Naturalmente non potevamo dire il suo nome; ma tutti sapevano che era opera sua e metà della corte affollava ogni sera la Casa di Tespi di Renaud.
Non ero il protagonista; ma ero il giovane innamorato, una specie di Lelio, ed era quasi meglio del ruolo principale; e dominavo tutte le scene in cui comparivo. Nicolas mi aveva insegnato la parte, e mi aveva rimproverato di continuo perché non imparavo a leggere. Prima della quarta replica, il commediografo aveva scritto altre battute apposta per me,
Nicki aveva il suo grande momento nell’intermezzo, quando la sua interpretazione di una piccola, spumeggiante sonata di Mozart teneva inchiodati gli spettatori alle sedie. Anche i suoi amici studenti erano ricomparsi. Ricevevamo inviti ai balli privati. A intervalli di pochi giorni correvo al Cimitero degli Innocenti per scrivere a mia madre; alla fine potei mandarle il ritaglio di un giornale inglese, The Spectator, dove si elogiava la nostra commediola e in particolare il briccone biondo che rubava i cuori delle signore nel terzo e nel quarto atto. Naturalmente non ero in grado di leggere il ritaglio. Ma il gentiluomo che l’aveva portato diceva che era lusinghiero, e anche Nicolas giurava che era così.
Quando vennero le prime notti fredde d’autunno, indossai il mantello rosso foderato di pelliccia per andare in scena. Lo si vedeva dalle ultime file della galleria, a meno di essere del tutto ciechi. Adesso avevo imparato a usare meglio il cerone bianco; lo sfumavo qua e là per mettere in risalto i contorni della mia faccia, e sebbene avessi gli occhi cerchiati di nero e le labbra un po’ tinte di rosso, apparivo nel contempo sconvolgente e umano. Ricevevo lettere d’amore da molte spettatrici.
La mattina Nicolas studiava musica con un maestro italiano. Comunque avevamo denaro a sufficienza per mangiare bene e comprare legna e carbone. Le lettere di mia madre arrivavano due volte la settimana. Mi diceva che la sua salute era migliorata. Non tossiva più come durante l’inverno precedente e non soffriva. Ma mio padre e il padre di Nicolas ci avevano rinnegati, e non volevano sentire neppure i nostri nomi.
Noi eravamo troppo felici per curarcene. Ma il timore tenebroso, la «malattia della mortalità» continuò ad assediarmi quando venne il freddo.
A Parigi, il freddo sembrava peggiore. Non era pulito come tra le montagne. I poveri stavano sotto i portoni, tremanti e affamati, e le strade tortuose erano coperte di lurido viscidume. Vedevo tanti bambini scalzi che soffrivano sotto i miei occhi, e i cadaveri abbandonati erano ancora più numerosi. Ero ben lieto di possedere il mantello foderato di pelliccia. L’avvolgevo intorno a Nicolas e lo tenevo stretto a me quando uscivamo insieme, e procedevamo abbracciati sotto la neve e la pioggia.
A parte il freddo, non so descrivere la felicità di quei giorni. La vita era esattamente ciò che doveva essere. E sapevo che non sarei rimasto a lungo nel teatro di Renaud. Tutti lo dicevano, e perciò sognavo grandi palcoscenici, tournée a Londra e persino in America con una formidabile compagnia di attori. Tuttavia non avevo motivo di affrettarmi. La mia coppa era colma.
8.
Ma nel mese di ottobre, mentre Parigi stava gelando, cominciai a I vedere regolarmente tra il pubblico una faccia strana che mi distraeva sempre. A volte riusciva quasi a farmi dimenticare ciò che facevo. E poi spariva, come se l’avessi immaginata. Dovevo averla vista, a intervalli, per circa due settimane, prima che mi decidessi a parlarne a Nicki.
Mi sentivo ridicolo, ed era diffìcile esprimermi a parole.
«Là fuori c’è qualcuno che mi osserva», gli dissi.
«Ti osservano tutti», replicò Nicki. «Ed è ciò che tu desideri.»
Quella sera era un po’ triste, e la sua risposta fu leggermente brusca.
Poco prima, mentre accendeva il fuoco, aveva detto che non sarebbe mai diventato un virtuoso del violino. Nonostante l’orecchio e la bravura, c’erano troppe cose che non sapeva. E io sarei diventato il più grande degli attori, ne era certo. Gli avevo risposto che era assurdo, ma un’ombra era calata sulla mia anima. Ricordavo ciò che mi aveva detto mia madre: per Nicki era troppo tardi.
Non era invidioso, mi disse. Era soltanto un po’ infelice.
Decisi di non parlare più della faccia misteriosa. Cercai di escogitare un modo per incoraggiarlo. Gli rammentai che il suo modo di suonare destava negli ascoltatori emozioni profonde e che persino gli attori tra le quinte si fermavano per ascoltarlo. Aveva un talento innegabile.
«Ma io voglio essere un grande violinista», disse. «E temo che non lo sarò mai. Finché eravamo a casa, potevo illudermi che lo sarei diventato.»
«Non puoi arrenderti!» dissi.
«Lestat, permettimi di essere franco», continuò lui. «Per te tutto è facile. Ottieni tutto ciò che vuoi. Lo so, pensi ai tanti anni d’infelicità che hai vissuto a casa. Ma anche allora, quando decidevi di fare qualcosa, ci riuscivi. E siamo partiti per Parigi il giorno in cui tu hai deciso di partire.»
«Non sei pentito d’essere venuto a Parigi, vero?» gli chiesi.
«No, naturalmente. Voglio dire, semplicemente, che tu consideri possibili cose che non lo sono. Almeno per il resto della gente. Come uccidere i lupi…»
Quando lo disse, fui scosso da un brivido freddo. E, per qualche ragione, pensai di nuovo alla faccia misteriosa tra il pubblico, la faccia che mi osservava. Qualcosa che aveva a che fare con i lupi. Qualcosa che aveva a che fare con i sentimenti espressi da Nicki. Non aveva senso. Cercai di non prenderla sul serio.