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Al contrario, le persone più semplici di quest’epoca erano guidate da una vigorosa morale laica, forte quanto le morali religiose che io avevo conosciuto. Erano gli intellettuali a far testo. Ma in tutta l’America una quantità di individui assolutamente comuni amavano appassionatamente «la pace» e «i poveri» e «il pianeta», come se fossero animati da un mistico zelo.

In quel secolo contavano di eliminare la fame. Intendevano annientare le malattie a qualunque costo. Discutevano rabbiosamente sull’esecuzione dei criminali e sugli aborti. E combattevano le minacce dell’«inquinamento ambientale» e della «guerra catastrofica» con lo stesso ardore con cui nelle epoche passate gli uomini hanno combattuto la stregoneria e l’eresia.

In quanto alla sessualità, non era più oggetto di superstizione e di paura. Le ultime sfumature religiose andavano svanendo. Perciò tutti andavano in giro seminudi, si baciavano e si abbracciavano per le strade. Adesso parlavano di etica e della responsabilità e della bellezza del corpo. Erano riusciti a tenere sotto controllo la procreazione e le malattie veneree.

Ah, il secolo ventesimo. Ah, il volgere della grande ruota. Aveva superato anche i miei sogni più audaci, questo futuro. Aveva ridicolizzato i profeti di sventura delle epoche passate.

Pensavo molto a questa morale laica priva di peccati, a questo ottimismo. Questo mondo fulgidamente illuminato dove il valore della vita umana era più grande di quanto fosse mai stato in precedenza.

Nell’ambrato crepuscolo elettrico di una grande stanza d’albergo guardavo sullo schermo davanti a me il sorprendente film di guerra intitolato Apocalypse Now. Era una sinfonia di suoni e di colori e cantava l’antica battaglia del mondo occidentale contro il male. «Dovete diventare amici dell’orrore e del terrore morale», diceva il comandante pazzo nel giardino selvaggio della Cambogia, e l’uomo occidentale rispondeva «No», come ha sempre risposto.

No. L’orrore e il terrore morale non possono mai esser giustificati. Non hanno un valore reale. Non c’è spazio per il male puro.

E ciò significa — non è forse vero? — che non c’è spazio per me.

Eccettuata, forse, l’arte che esorcizza il male, i fumetti dei vampiri, i romanzi dell’orrore, i vecchi racconti gotici… o i canti ruggenti delle rockstar che drammatizzano le battaglie contro il male combattute da ogni mortale nell’intimo del proprio essere.

Era sufficiente per indurre un mostro del Vecchio Mondo a seppellirsi di nuovo, quella sbalorditiva irrilevanza nei confronti dello schema universale delle cose, era sufficiente per indurlo a buttarsi a terra piangendo. Oppure per farlo diventare un cantante rock, a pensarci bene…

Ma dov’erano gli altri mostri del Vecchio Mondo? Me lo domandavo. Come potevano esistere altri vampiri in un mondo dove ogni morte veniva registrata da giganteschi computer e i cadaveri venivano portati in celle frigorifere? Probabilmente si nascondevano nell’ombra come insetti ripugnanti, come hanno sempre fatto, per quanto parlassero di filosofia e istituissero conventicole.

Bene, quando avessi levato la voce con il complessino chiamato Satan’s Night Out, li avrei riportati alla luce molto in fretta.

Continuavo a istruirmi. Parlavo con i mortali alle fermate degli autobus e ai distributori di benzina e nei bar eleganti. Leggevo molti libri. Mi bardavo dei luccicanti indumenti di sogno dei negozi alla moda. Portavo maglioni bianchi a collo alto, fresche sahariane, oppure raffinati blazer di velluto verde con sciarpe di cachemire. Mi incipriavo la faccia per poter passare inosservato sotto le luci chimiche dei supermercati aperti tutta la notte, dei fast-food, e delle strade piene di locali notturni, sfolgoranti come luna-park.

Imparavo. Ero innamorato.

E il mio unico problema era che scarseggiavano gli assassini di cui nutrirmi. In quel mondo brillante d’innocenza e di abbondanza, di cortesia e di gaiezza e di stomaci pieni, i tagliagole del passato e i loro pericolosi ritrovi lungo il porto erano quasi scomparsi.

Perciò dovevo lavorare per vivere. Ma ero sempre stato un cacciatore. Mi piacevano le sale da biliardo, semibuie e piene di fumo, con l’unica lampada che splendeva sopra il feltro verde mentre gli ex galeotti tatuati vi si raccoglievano intorno, e allo stesso modo mi piacevano i night-club tappezzati di raso dei grandi alberghi di cemento. E continuavo a imparare sempre di più sui miei assassini… i trafficanti di droga, i ruffiani, i teppisti che s’imbrancavano con le bande motorizzate.

Ero più che mai deciso a non bere sangue innocente.

E alla fine venne il momento di far visita ai miei vecchi vicini del complesso rock chiamato Satan’s Night Out.

Alle sei e mezzo di un afoso sabato sera suonai alla porta dello studio all’ultimo piano. I giovani, bellissimi mortali stavano sdraiati nelle loro camicie di seta iridata e nei calzoni attillati, e fumavano sigarette d’hashish e si lamentavano della loro sfortuna che li condannava a lavorare nel Sud.

Sembravano angeli biblici, con i lunghi capelli puliti e i movimenti felini: e portavano gioielli egiziani. Anche per provare si dipingevano gli occhi e la faccia.

Mi sentii sopraffare dall’eccitazione e dall’amore soltanto a guardarli, Alex e Larry e la piccola, appetitosa Tough Cookie.

E in un momento stranissimo in cui mi parve che il mondo rimanesse immobile sotto di me, dissi loro che cos’ero. Per loro la parola «vampiro» non era una novità. Nella galassia in cui splendevano, altri mille cantanti avevano portato i canini finti e il mantello nero.

Tuttavia era così strano dire apertamente ai mortali la verità proibita. In duecento anni non l’avevo mai rivelata a qualcuno che non fosse destinato a diventare uno di noi. Non lo confidavo neppure alle mie vittime prima che chiudessero gli occhi.

E adesso lo dissi chiaramente e distintamente a quelle creature giovani e belle. Dissi che volevo cantare con loro, che se mi avessero dato fiducia saremmo diventati tutti ricchi e famosi. Dissi che, su un’onda di ambizione preternaturale e spietata, li avrei portati fuori da quelle stanze, nel mondo sconfinato.

I loro occhi si velarono mentre mi guardavano. E la stanzetta di stucco e cartapesta echeggiò delle loro risate allegre.

Ero paziente. Perché non dovevo esserlo? Sapevo d’essere un demone capace d’imitare quasi tutti i suoni e i movimenti degli umani. Ma come potevo pretendere che capissero? Andai al piano elettrico e cominciai a suonare e cantare.

All’inizio imitai le canzoni rock, e poi rievocai vecchie melodie e vecchi versi, canzoni francesi sepolte nel profondo della mia anima e tuttavia mai abbandonate… e li intessei in ritmi brutali, mentre vedevo davanti a me un piccolo, affollato teatro parigino di un paio di secoli prima. Una passione pericolosa sgorgò dentro di me, minacciò il mio equilibrio. Pericolosa perché si rivelava troppo presto. Tuttavia continuai a cantare, battendo sui tasti bianchi del piano elettrico, e qualcosa si spalancò nella mia anima. E poco contava che le tenere creature mortali raccolte intorno a me non l’avrebbero mai saputo.

Mi bastava che fossero giubilanti, che amassero quella musica bizzarra e sconnessa, che gridassero e vedessero un futuro di prosperità, l’impeto che prima era loro mancato. Misero in funzione i registratori e cominciammo a cantare e suonare insieme… jamming, era la loro espressione di gergo. Lo studio era saturo dell’odore del loro sangue e delle nostre canzoni fragorose.

Ma poi accadde qualcosa che non avevo previsto neppure nei miei sogni più strani… qualcosa che fu straordinario quanto lo era stata la mia piccola rivelazione a quelle creature. Anzi, fu così sconvolgente che avrebbe potuto scacciarmi dal loro mondo e ricostringermi alla clandestinità.