Le altre non risposero. Erano esseri concreti e pratici che non volevano parlar male del loro benefattore. Le cose andavano troppo bene.
E, nel silenzio che si protraeva, sentii la profondità dell’angoscia di Nicki. Lo conoscevo come se gli scrutassi nella mente. E non potevo sopportarlo.
Non potevo sopportare di frugargli nell’anima a sua insaputa. Tuttavia, non potevo evitare di intuire dentro di lui un immenso territorio segreto, forse più buio di quanto avessi mai sognato; e ricordai le sue parole, quando mi aveva detto che la tenebra dentro di lui era simile a quella che avevo veduto alla locanda, e che cercava di nascondermela.
Mi sembrava quasi di vederlo, quel territorio. E in un senso molto reale trascendeva la sua mente, come se questa fosse soltanto la porta d’accesso a un caos che si estendeva al di là dei confini di ciò che conosciamo.
Era spaventoso. Non volevo vederlo. Non volevo sentire ciò che sentiva!
Ma cosa potevo fare per luì? Questo era l’importante. Cosa potevo fare per stroncare una volta per tutte quel tormento?
Volevo toccare le sue mani, le sue braccia, il suo viso. Desideravo toccare la sua carne con le mie dita immortali. E mi sorpresi a bisbigliare la parola «Vivo». Sì, sei vivo e ciò significa che puoi morire. E tutto ciò che vedo quando ti guardo è assolutamente privo di sostanza. È una mescolanza di movimenti minutissimi e di colori indefinibili, come se non avessi un corpo e fossi una composizione di calore e di luce, Tu sei la luce, e ora io che cosa sono?
Per quanto sia eterno, in quel fulgore mi consumo come una brace.
Ma l’atmosfera nella stanza era cambiata. Luchina e Jeannette si stavano accomiatando con parole cortesi. Nicki le ignorava. S’era girato verso la finestra e si stava alzando come se fosse chiamato da una voce segreta. L’espressione del suo volto era indescrivibile.
Sapeva che ero là!
Mi arrampicai immediatamente sul muro scivoloso, verso il tetto.
Ma lo udivo ancora, sotto di me. Guardai e vidi le sue mani nude sul davanzale della finestra. E nel silenzio udii il suo panico. Aveva intuito la mia presenza. La mia presenza, ecco che cosa aveva percepito, come io percepivo la presenza nei cimiteri. E si domandava: «Ma come è possibile che Lestat fosse qui?»
Ero troppo sconvolto per fare qualcosa. Mi aggrappai alla grondaia, e sentii che le altre se ne andavano, che era rimasto solo. E la sola cosa che potevo pensare era: «In nome dell’inferno, cos’è la presenza che ha sentito?»
Voglio dire: io non ero più Lestat, ero un demone, un vampiro avido e potente; eppure lui percepiva la mia presenza, la presenza di Lestat, il giovane che conosceva!
Era molto diverso dal fatto che un mortale vedesse la mia faccia ed esclamasse il mio nome, in preda all’imbarazzo. Lui aveva identificato nella mia entità mostruosa qualcosa che conosceva e che amava.
Smisi di ascoltarlo. Rimasi disteso sul tetto.
Ma sapevo che si muoveva, là sotto. Seppi quando prese il violino dal pianoforte, seppi che era di nuovo accanto alla finestra.
E mi tappai le orecchie con le mani.
Ma il suono mi giungeva comunque. Saliva dallo strumento e fendeva la notte come se fosse un elemento splendente, diverso dall’aria e dalla luce e dalla materia e capace di ascendere fino alle stelle.
Nicki faceva vibrare le corde, e quasi mi sembrava di vederlo contro lo sfondo delle mie palpebre chiuse, mentre oscillava leggermente, con la testa china sul violino come se intendesse trasfondersi nella musica: poi la sensazione del suo essere svanì e rimase soltanto il suono.
Le lunghe noti vibranti, e i glissando che facevano rabbrividire, e il violino che cantava in una lingua tutta sua e faceva apparire falsa ogni altra forma di eloquio. Tuttavia, mentre il canto diventava più profondo, si trasmutava nell’essenza stessa della disperazione, come se la sua bellezza fosse una coincidenza orrida, qualcosa di grottesco senza una particella di verità.
Era questo ciò che credeva e che aveva sempre creduto quando io parlavo e parlavo del bene? Lo faceva dire dal violino? Creava deliberatamente quelle lunghe note liquide e pure, per dire che la bellezza non significava nulla perché veniva dalla disperazione, e alla fin fine non aveva nulla da spartire con la disperazione perché la disperazione non era bella, e quindi la bellezza era un’orrida ironia?
Non conoscevo la risposta. Ma il suono lo trascendeva, come sempre. Diventava più grande della disperazione. Si snodava agilmente in una melodia lenta, come l’acqua che cerca il percorso per discendere dalla montagna. Diventava più ricco e più oscuro, e sembrava racchiudere qualcosa di indisciplinato e deprimente, straziante e immenso. Giacevo supino sopra il tetto, adesso, con gli occhi volti alle stelle.
Minuscoli punti di luce che i mortali non potevano vedere. Nubi fantasma. E il suono crudo e penetrante del violino che, con tensione squisita, giungeva alla conclusione.
Non mi mossi.
Comprendevo in silenzio il linguaggio del violino. Nicki, se potessimo parlare ancora… Se la «nostra conversazione» potesse continuare…
La bellezza non era il tradimento che lui aveva immaginato; era piuttosto una terra inesplorata dove si potevano commettere mille errori fatali, un paradiso selvaggio e indifferente senza nulla che indicasse la presenza del male e del bene.
Nonostante tutti gli affinamenti della civiltà che cospiravano per creare l’arte, la perfezione inebriante del quartetto d’archi, e la grandiosità distesa delle tele di Fragonard, la bellezza era selvaggia. Era pericolosa e senza leggi come lo era stata la terra molti millenni prima che l’uomo avesse un solo pensiero coerente o scrivesse codici di comportamento sulle tavolette d’argilla. La bellezza era un Giardino Selvaggio.
Dunque, perché doveva ferirlo il fatto che la musica più disperata fosse colma di bellezza? Perché doveva ferirlo e renderlo cinico e triste e diffidente?
Bene e male sono concetti stabiliti dall’uomo. E in realtà l’uomo è migliore del Giardino Selvaggio.
Forse, nel profondo del suo essere Nicki aveva sempre sognato un’armonia di tutte le cose, un’armonia che io ho sempre saputo impossibile. Nicki non aveva sognato il bene, ma la giustizia.
Ma ormai non avremmo più potuto discutere tra noi di queste cose. Non saremmo più andati alla locanda. Perdonami, Nicki. Il bene e il male continuano a esistere, come esisteranno sempre. Ma la «nostra conversazione» è finita per sempre.
Tuttavia, mentre lasciavo il tetto, mentre mi allontanavo in silenzio dall’Ile St.-Louis, sapevo che cosa intendevo fare.
Non lo ammettevo neppure con me stesso, ma lo sapevo.
La notte seguente era già tardi quando arrivai al Boulevard du Temple. Mi ero nutrito bene nell’Ile de la Cité, ed era già incominciato il primo atto, alla Casa di Tespi di Renaud.
12.
Mi ero vestito come se dovessi andare a corte: broccato d’argento con una roquelaure di velluto color lavanda sulle spalle. Avevo una spada nuova con l’impugnatura d’argento lavorata e le solite lussuose fibbie alle scarpe, i soliti pizzi, i guanti, il tricorno. Mi recai a teatro con una carrozza presa a nolo.
Però, appena ebbi pagato il cocchiere, tornai nel vicolo e aprii la porta del palcoscenico, esattamente come avevo sempre fatto.
Subito la vecchia atmosfera mi circondò, l’odore del cerone e dei modesti costumi intrisi di sudore e di profumi, e della polvere. Vedevo un angolo del palcoscenico illuminato che brillava oltre il disordine e sentivo gli scrosci di risate del pubblico. Un gruppo di acrobati attendeva di esibirsi durante l’intermezzo, una folla di giullari con le calzamaglie rosse, i berretti e i grandi colletti tempestati di sonaglietti dorati.