Provai un senso di vertìgine e, per un momento, di paura. Mi sembrava un luogo soffocante e pericoloso: tuttavia era splendido essere di nuovo lì. E dentro di me ingigantiva la tristezza… no, il panico.
Luchina mi vide e gettò uno strillo. Tutt’intorno si aprirono le porte dei minuscoli camerini. Renaud corse verso di me e mi strinse calorosamente la mano. Là dove un momento prima c’erano soltanto legno e drappeggi, adesso c’era un piccolo universo di esseri umani eccitati, facce colorite e madide, e mi sorpresi ad allontanarmi da un candeliere fumante e a mormorare in fretta: «I miei occhi… spegnetelo».
«Spegnete le candele, non vedete che gli fanno male gli occhi?» insistette brusca Jeannette. Sentii le sue labbra umide sfiorarmi il viso. Mi stavano tutti intorno, persino gli acrobati che non conoscevo, e i vecchi pittori di scene e i carpentieri che mi avevano insegnato tante cose. Luchina disse: «Chiamate Nicki», e per poco io non gridai: No! Gli applausi facevano tremare il piccolo teatro. Il sipario veniva chiuso. È subito i vecchi attori mi attorniarono e Renaud gridò di portare lo champagne.
Mi tenevo le mani sugli occhi come se fossi il basilisco capace di ucciderli tutti con lo sguardo; sentivo spuntare le lacrime e sapevo che dovevo tergerle prima che gli altri vedessero il sangue. Ma erano così vicini che non potevo prendere il fazzoletto; con una debolezza improvvisa e terribile abbracciai Jeannette e Luchina, e premetti il volto contro il volto di quest’ultima. Erano come due uccelli, con le ossa piene d’aria e i cuori che palpitavano come ali. Per un secondo ascoltai scorrere il loro sangue con l’udito di un vampiro: ma mi sembrava un’oscenità. Mi abbandonai agli abbracci e ai baci ignorando i battiti dei loro cuori, e le tenni strette e aspirai l’odore della loro pelle incipriata e sentii di nuovo la pressione delle loro labbra,
«Non sapete quanto eravamo preoccupati per voi!» tuonò Renaud. «E poi le storie della vostra fortuna! Tutti, tutti!» Battè le mani. «È Monsieur de Valois, il padrone di questo grande teatro…» Disse molte altre frasi solenni e scherzose, e trascinò gli attori e le attrici nuovi verso di me, forse perché mi baciassero le mani o i piedi, chissà. Io tenevo strette le due ragazze come se rischiassi di esplodere qualora le avessi lasciate, e poi sentii Nicki, e compresi che era a un passo da me e mi fissava, ed era troppo felice di rivedermi per essere ancora offeso.
Non aprii gli occhi ma sentii la sua mano passare sul mio viso e quindi stringermi la nuca. Dovevano avergli fatto largo; e quando mi venne fra le braccia provai una piccola convulsione di terrore. Ma la luce era fioca, e mi ero cibato furiosamente per essere caldo e avere un aspetto umano; e pensavo disperatamente che non sapevo chi pregare perché l’inganno funzionasse. E poi, per me vi fu soltanto Nicki e il resto non contò più. Lo guardai in viso.
È impossibile descrivere come ci appaiono gli umani! Ho tentato di spiegarlo un poco, quando ho detto che la notte prima la bellezza di Nicki era una mescolanza di movimento e di colore. Ma non potete immaginare cosa sia per noi guardare la carne vivente. Vi sono milioni di colori e minuscole configurazioni di movimento, sì, che formano una creatura viva sulla quale ci concentriamo. Ma la radiosità si mescola totalmente con l’odore carnale. Bellissimo… ecco cos’è per noi ogni essere umano, se ci soffermiamo a considerarlo: anche i vecchi e i malati, i reietti che in realtà uno non «vede» per la strada. Sono tutti così, come fiori sempre in procinto di schiudersi, farfalle che escono perennemente dal bozzolo.
Bene, io vidi tutto questo quando vidi Nicki, e sentii l’odore del sangue che scorreva nelle sue vene e per un momento inebriante provai amore e soltanto amore, così intenso da cancellare ogni ricordo degli orrori che mi avevano deformato. Ogni estasi malefica e ogni nuovo potere con le sue gratificazioni mi apparivano irreali. Forse provavo una gioia profonda, anche, perché sapevo ancora amare, se mai ne avevo dubitato, e perché aveva trovato conferma una tragica vittoria.
Tutto il vecchio conforto mortale mi inebriava; avrei potuto chiudere gli occhi e abbandonare lo stato di coscienza portandolo con me, o almeno così mi sembrava.
Ma qualcos’altro fremeva in me e acquisiva forza così in fretta che la mia mente si precipitava per inseguirlo e negarlo mentre minacciava di diventare incontrollabile. Lo riconobbi per ciò che era: qualcosa di mostruoso e di enorme e di naturale per me quanto era innaturale il sole. Volevo Nicki. Lo volevo con la stessa intensità con cui avevo voluto le vittime domate nell’Ile de la Cité. Volevo che il suo sangue fluisse in me, volevo il suo sapore e il suo odore e il suo calore.
Il piccolo teatro echeggiava di grida e di risate. Renaud disse agli acrobati di procedere con l’intermezzo e Luchina stappò lo champagne. Ma noi eravamo isolati nel nostro abbraccio.
Il calore irradiato dal corpo di Nicki mi fece irrigidire e indietreggiare, sebbene sembrasse che non mi muovessi. Mi sentivo impazzire all’idea che costui, amato come amavo mia madre e i miei fratelli, destinatario dell’unica tenerezza del mio animo, fosse una cittadella inespugnabile, difesa dall’ignoranza contro la mia sete di sangue quando centinaia di vittime l’avevano ceduto così facilmente.
Ero fatto per questo. Era la via che dovevo percorrere. Che cos’erano gli altri, ora, per me… i ladri e gli assassini che avevo stroncato nella giungla di Parigi? Era questo, ciò che volevo. E la grande, temibile possibilità della morte di Nicki mi esplose nella mente. La tenebra contro le mie palpebre chiuse era diventata rossa come il sangue. La mente di Nicki si svuotava in quell’ultimo momento, e abbandonava la complessità contemporaneamente alla vita.
Non potevo muovermi. Sentivo il sangue come se passasse da lui a me, e gli premevo le labbra sul collo. Ogni particella del mio essere diceva: «Prendilo, portalo lontano da qui, lontano, e nutriti di lui, nutriti di lui… fino a quando…» Fino a quando che cosa?… Fino a quando sarà morto!
Mi svincolai e lo respinsi. Intorno a noi la folla rumoreggiava. Renaud gridava qualcosa agli acrobati che assistevano alla scena a occhi sgranati. Nella sala, il pubblico invocava lo spettacolo dell’intermezzo battendo ritmicamente le mani. L’orchestra suonava il motivetto vivace che doveva accompagnare gli acrobati. Ossa e carne premevano contro di me. Il teatro era diventato uno scannatoio, carico dell’odore di coloro che erano pronti per il macello. Sentii i conati anche troppo umani della nausea.
Nicki sembrava aver perso il suo equilibrio; e quando i nostri occhi s’incontrarono sentii le accuse che si irradiavano da lui. Sentii l’infelicità e, peggio ancora, la disperazione.
Mi feci largo tra tutti, tra gli acrobati con i sonagli tintinnanti; non so perché, mi spinsi verso le quinte anziché uscire dalla porta secondaria. Volevo vedere il palcoscenico. Volevo vedere il pubblico. Volevo penetrare più a fondo qualcosa cui non avrei saputo dare un nome. Ma ero come pazzo in quei momenti. Non ha senso dire che volevo o pensavo qualcosa.
Ansimavo, e la sete era come un gatto che graffiava per uscire allo scoperto. E quando mi appoggiai alla trave lignea accanto al sipario, Nicki, che era offeso e aveva frainteso tutto, tornò ad avvicinarsi a me. Lasciai che la sete infuriasse. Lasciai che mi artigliasse le viscere. Mi tenni aggrappato alla trave e rividi, nel ricordo, tutte le mie vittime, la feccia di Parigi trovata nelle fogne, e compresi la follia della strada che avevo scelto, e la sua fallacia, e ciò che ero veramente. Era un’idiozia sublime che avessi trascinato con me quella sciocca morale e che colpissi soltanto i dannati… cercavo di essere tra i salvati nonostante tutto? Cosa avevo creduto di essere, un virtuoso collaboratore dei giudici e dei carnefici di Parigi, pronti a colpire i poveri per quei crimini che i ricchi commettono ogni giorno?