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Avevo bevuto un vino forte in recipienti incrinati e sbreccati, e adesso il prete stava davanti a me ai piedi dell’altare con il calice d’oro fra le mani, e il vino che questo conteneva era il Sangue dell’Agnello. Nicki parlava, in fretta.

«Lestat, che cosa c’è? Dimmelo!» Come se gli altri non potessero sentirci. «Dove sei stato? Che cosa ti è successo? Lestat!»

«Via, in scena!» tuonò Renaud agli acrobati che ci guardavano a bocca aperta. Costoro passarono oltre, entrarono nel chiarore fumoso delle lampade e incominciarono una serie di capriole.

Gli orchestrali trasformarono gli strumenti in uccelli che cinguettavano. Un lampo rosso, maniche d’Arlecchino, tintinnio di sonagli, sfide del pubblico indisciplinato: «Fateci vedere qualcosa di bello, su!» Luchina mi baciò e io fissai la sua gola bianca, le mani lattee. Vedevo le vene del viso di Jeannette, il cuscinetto morbido del labbro inferiore farsi ancora più vicini. Lo champagne scendeva in dozzine di bicchieri. Renaud stava facendo un discorso sulla nostra «società» e sulla farsa che incominciava ad andare in scena quella sera, e diceva che presto il nostro sarebbe diventato il più grande teatro dei boulevard. Io mi vedevo vestito per la parte di Lelio e sentivo il motivetto che avevo cantato in ginocchio a Flaminia.

Davanti a me c’erano piccoli mortali che caprioleggiavano pesantemente, e gli spettatori fischiavano mentre il capo degli acrobati faceva un movimento osceno con il didietro.

Ancor prima di rendermi conto di ciò che facevo, andai in scena.

Mi fermai al centro e sentii il caldo delle lampade, il fumo che mi irritava gli occhi. Guardai la galleria affollata, i palchi con gli schermi, le file degli spettatori. Sentii la mia voce ringhiare all’acrobata l’ordine di andarsene.

La risata era assordante, e la sfida e gli urli che mi accoglievano erano spasimi ed eruzioni: e, dietro il volto, ogni spettatore era un teschio ghignante. Canticchiavo il motivetto che avevo cantato come Lelio, solo un frammento della mia parte; ma l’avevo portato con me per le vie, «dolce, dolce Flaminia», e le parole erano suoni privi di senso.

Nel baccano echeggiarono gli insulti.

«Avanti con la rappresentazione!» «Sei abbastanza bello, darti da fare!» Dalla galleria qualcuno lanciò una mela sbocconcellata che rimbalzò davanti ai miei piedi.

Sganciai il roquelaure viola e lo lasciai cadere. Lasciai cadere anche la spada d’argento.

Il canto era divenuto un mormorio indistinto dietro le mie labbra, ma una poesia folle mi martellava nella mente. Vedevo la giungla della bellezza selvaggia, come l’avevo veduta la sera prima mentre Nicki suonava, e il mondo morale pareva un sogno disperato di razionalità, privo di possibilità in quel fetido lussureggiare. Era una visione, e io vedevo più di quanto non capissi; tuttavia ne facevo parte, naturale come il gatto dal muso squisito e impassibile che affonda gli artigli nel dorso di un topo urlante.

«Abbastanza bello è il Mietitore di vite», mormorai, «che può estinguere tutte queste candele dalla breve durata, tutte le anime che respirano l’aria in questa sala.»

Ma le parole sfuggivano alla mia portata. Aleggiavano in uno strato dove forse esisteva un dio che capiva i colori screziati della pelle di un cobra e le otto note splendide della musica creata dallo strumento di Nicki, ma non il principio trascendente la bruttezza e la bellezza: «Non uccidere».

Centinaia di facce untuose mi guardavano dalla semioscurità. Parrucche disordinate, gioielli falsi, abiti sporchi, e pelle che pareva scorrere come acqua sulle ossa storte. Una folla di mendicanti laceri fischiava e gridava dalla galleria, gobbi e guerci, e grucce puzzolenti, e denti del colore dei denti dei teschi che si rimuovono dalla terra di una tomba.

Tesi le braccia. Piegai il ginocchio e incominciai a girare su me stesso come gli acrobati e i danzatori, su un piede solo e sempre più svelto, fino a quando mi fermai e mi lanciai all’indietro in una successione di capriole e di salti mortali, imitando tutto ciò che avevo visto fare dagli artisti delle fiere.

Scrosciarono gli applausi. Ero agile come nel villaggio, e la scena era piccola, il soffitto sembrava gravarmi addosso, il fumo delle lampade mi circondava. Ricordai la canzoncina dedicata a Flaminia e cominciai a cantarla a voce spiegata mentre piroettavo e saltavo e volteggiavo. Poi guardai il soffitto, comandai al mio corpo di slanciarsi e piegai le ginocchia per saltare.

In un istante toccai le travi e ridiscesi con eleganza, senza far rumore.

Gli spettatori proruppero in esclamazioni. La piccola folla tra le quinte era sbalordita. I musicisti si guardavano: vedevano che non ero sostenuto da corde.

Ma io spiccai un altro salto fra l’entusiasmo del pubblico e questa volta caprioleggiai fino in alto, oltre l’arco dipinto, per discendere in volteggi più lenti e aggraziati.

Risuonarono grida e acclamazioni e applausi; ma coloro che stavano fra le quinte erano muti. Nicki era vicinissimo e le sue labbra mormoravano in silenzio il mio nome.

«Dev’essere un trucco, un’illusione.» Da ogni parte giungevano gli stessi commenti; tutti chiedevano la conferma a chi avevano intorno. Per un istante la faccia di Renaud splendette davanti a me, con la bocca aperta e gli occhi strabuzzati.

Ma avevo ricominciato a ballare. Questa volta la grazia non aveva più importanza per il pubblico. Lo sentivo; e la danza diventò una parodia, ogni gesto divenne più ampio e prolungato e lento di quello che avrebbe potuto compiere un ballerino umano.

Qualcuno gridò fra le quinte e fu zittito. Dai musicisti e dagli spettatori delle prime file si levarono esclamazioni soffocate. La gente cominciava a sentirsi a disagio e si scambiava bisbigli; ma la marmaglia in galleria continuava ad applaudire.

Mi lanciai verso il pubblico come per rimproverargli la scortesia. Molti spettatori rimasero così sbigottiti che si alzarono e cercarono di scappare nelle corsie. Un suonatore di corno lasciò cadere lo strumento e abbandonò il suo posto.

Leggevo l’agitazione e persino la collera sui volti. Cos’erano quelle illusioni? All’improvviso non si divertivano più, non capivano, e i miei modi seri li impaurivano. Per un momento terribile sentii la loro impotenza.

E sentii il loro destino.

Una grande orda di scheletri coperti di carne e di cenci, ecco che cos’erano: e tuttavia il loro coraggio sfolgorava, e gridavano con insopprimibile orgoglio.

Alzai lentamente le mani per attirare la loro attenzione e cantai a gran voce, con fermezza, la dichiarazione a Flaminia, la mia dolce Flaminia, e una sciocca strofa lasciò spazio all’altra, e la mia voce diventò più forte, sempre più forte, fino a che gli spettatori si alzarono urlando; ma io cantai ancora più forte, fino a cancellare ogni altro suono. E nel fragore intollerabile li vidi tutti, a centinaia, rovesciare le panche nell’alzarsi, con le mani premute sulle orecchie.

Le loro bocche erano smorfie e urla stridenti.

Pandemonio. Grida, maledizioni, e tutti che lottavano per precipitarsi alle uscite. Le tende dei palchi venivano staccate. Molti uomini saltavano dalla galleria per correre verso la strada.

Interruppi l’orrido canto.

Rimasi a guardarli in un silenzio sonante, quei corpi deboli e sudati che si lanciavano goffamente in ogni direzione. Il vento soffiava dalle porte aperte e io sentivo nelle membra un freddo strano e mi pareva che i miei occhi fossero diventati di vetro.

Senza guardare, raccolsi la spada e la rimisi al fianco, strinsi fra le dita il colletto di velluto del mio roquelaure impolverato. Tutti quei gesti sembravano grotteschi come tutti gli altri che avevo compiuto; e pareva non avere importanza che Nicki cercasse di liberarsi dei due attori che lo trattenevano mentre gridava il mio nome.

Ma qualcosa, nel caos, attirò la mia attenzione. Sembrava terribilmente importante… c’era qualcuno, lassù, in uno dei palchi aperti, che non cercava di fuggire, anzi non si muoveva.