Ma che cosa pensava, al di là dell’attesa disperata? Lestat, Lestat, Lestat: questo lo sentivo. Ma più oltre…
«Fa’ che la sofferenza peggiori, perché solo quando la sofferenza è davvero terribile io voglio morire. Se la sofferenza diventasse abbastanza intensa, così che io fossi lieta di morire e non ne avessi tanta paura… Voglio che diventi terribile al punto di impedirmi di essere spaventata.»
«Monsieur.» Il dottore mi toccò il braccio. «Vostra madre non vuole che chiamiamo il prete.»
«No… non lo vorrà.»
Mia madre aveva girato la testa verso la porta. Se non fossi entrato subito, si sarebbe alzata, a costo di sofferenze inaudite, per venirmi incontro.
Mi sembrava di non potermi muovere. Tuttavia mi spinsi oltre il dottore e l’infermiera, entrai nella stanza e chiusi la porta.
Odore di sangue.
Nella pallida luce violetta della finestra, mia madre stava seduta, vestita con eleganza di taffetà blu, con una mano sulle ginocchia e l’altra sul braccio in modo che i riccioli le ricadevano sulle spalle sfuggendo ai nastri rosa. C’era un lieve tocco di belletto sulle sue guance.
Per un momento stranissimo mi apparve come quand’ero bambino. Così graziosa. La simmetria del volto non era stata cambiata dal tempo o dall’infermità, ed erano immutati anche i capelli. Fui travolto da una felicità sconvolgente, dalla calda illusione di essere di nuovo mortale, di nuovo innocente e assieme a lei; e che tutto, tutto andava nel migliore dei modi.
Non esisteva la morte né il terrore: c’eravamo soltanto io e lei in quella camera. E lei mi avrebbe abbracciato. Mi fermai.
Le ero arrivato vicino; quando alzò la testa, vidi che piangeva. L’abito parigino la fasciava troppo strettamente, e la sua pelle era così tesa e incolore sulla gola e sulle mani che non tolleravo di guardarle, e gli occhi spiccavano in un volto quasi livido. Sentivo su di lei l’odore della morte, l’odore della putrefazione.
Ma era radiosa ed era mia; era qual era sempre stata, e io glielo dissi in silenzio con tutte le mie forze, le dissi che era bellissima com’era nel mio ricordo, quando aveva ancora i vecchi abiti raffinati e si vestiva con ogni cura, e mi prendeva sulle ginocchia mentre andavamo in chiesa con la carrozza.
E in quello strano momento, quando glielo feci comprendere, quando le feci capire quanto mi era cara, mi resi conto che mi aveva udito, e mi rispondeva che mi amava e mi aveva sempre amato.
Era la risposta a un interrogativo che non avevo mai fatto. E lei ne conosceva l’importanza. I suoi occhi erano limpidi, trasparenti.
Se si rendeva conto della stranezza di ciò che accadeva, del fatto che potevamo parlarci senza parole, non lo dava a vedere. Senza dubbio, non lo comprendeva completamente. Doveva aver captato soltanto un’ondata traboccante d’amore.
«Vieni qui, in modo che possa vedere come sei ora», mi disse.
La candela era accanto al suo braccio, sul davanzale. La spensi volutamente. La vidi aggrottare la fronte, vidi contrarsi le sopracciglia bionde, gli occhi azzurri si sgranarono un poco mentre guardava me e il broccato di seta e i pizzi che avevo indossato per lei, e la spada che portavo al fianco con l’impressionante impugnatura gemmata.
«Perché non vuoi che ti veda?» mi chiese. «Sono venuta a Parigi apposta. Riaccendi la candela.» Ma la voce non aveva toni di rimprovero. Ero lì con lei, e questo era sufficiente.
M’inginocchiai davanti a lei. Stavo pensando a una conversazione quale avrebbe potuto intavolarla un mortale, stavo pensando di dirle che doveva andare in Italia con Nicki. E, prima che potessi parlare, mi disse distintamente:
«Troppo tardi, tesoro mio. Non riuscirei a portare a termine il viaggio. Sono già arrivata anche troppo lontano.»
Una fitta di sofferenza l’attanagliò, avvinghiandola alla vita; e per nasconderla abbandonò ogni espressione. Sembrava una ragazzina: e io sentii di nuovo in lei l’odore della malattia, la putrefazione dei polmoni e i grumi di sangue.
La sua mente divenne un tumulto di paura. Voleva gridare che era atterrita. Voleva implorarmi di tenerla stretta e di restar con lei sino alla fine; ma non poteva. E con mio grande stupore compresi che prevedeva un mio rifiuto, che mi giudicava troppo giovane e spensierato per capire.
Era una sofferenza atroce.
Non mi accorsi neppure di essermi allontanato: ma avevo attraversato la stanza. Tanti piccoli dettagli stupidi si impressero nella mia coscienza: le ninfe che danzavano sul soffitto dipinto, le maniglie dorate delle porte, la cera fusa in stalattiti fragili sulle candele, che avrei voluto staccare e sbriciolare tra le dita. Quel posto mi sembrava bruttissimo, eccessivo. Lei l’odiava? Rimpiangeva le stanze di pietra nuda?
Pensavo a lei come se ci fosse «domani e domani e domani…» Tornai a guardare la figura maestosa accanto alla finestra. Dietro di lei il cielo s’era fatto più buio, e una luce nuova, la luce dei lampioni e delle carrozze di passaggio e delle finestre vicine, sfiorava delicatamente il minuto triangolo rovesciato del suo viso scarno.
«Non puoi parlarmi?» chiese a voce bassa. «Non puoi dirmi com’è accaduto? Hai dato tanta felicità a tutti noi.» Parlare la faceva soffrire. «Ma tu? Tu?»
Stavo per ingannarla, credo, per inventare un’emanazione di contentezza con tutti i poteri che possedevo. Avrei detto menzogne mortali con immortale abilità. Avrei incominciato a parlare e a parlare, studiando ogni parola per renderla perfetta. Ma nel silenzio accadde qualcosa.
Non credo che rimasi immobile e silenzioso per più di un momento, ma qualcosa mutò dentro di me. Si compì una trasformazione terribile. In un istante vidi una possibilità immensa e terrificante, e in quello stesso istante, senza discutere, decisi.
Non avevo parole, non avevo un piano. E l’avrei negato se qualcuno mi avesse interrogato in quel momento. Avrei detto: «No, mai, nulla è più lontano dai miei pensieri. Che mostro credi che io sia…?» Eppure la scelta era già fatta.
Compresi una verità assoluta.
Le parole di mia madre s’erano spente; aveva di nuovo paura e soffriva. Nonostante la sofferenza, si alzò.
Vidi la trapunta scivolarle di dosso e compresi che veniva verso di me e che avrei dovuto fermarla. Ma non lo feci. Vidi le sue mani tendersi: e dopo un attimo compresi che era indietreggiata, come spinta da un vento poderoso.
Era arretrata sul tappeto ed era caduta contro il muro. Ma rimase subito immobile, come per un atto di volontà; e sul suo volto non c’era paura, sebbene il cuore le battesse forte. C’era piuttosto un’espressione di stupore e poi di calma perplessa.
Se avevo qualche pensiero in quel momento, non so quale fosse. Mi avvicinai con la stessa decisione con cui lei s’era avvicinata a me. Continuai ad avvicinarmi valutando ogni sua reazione fino a quando fummo vicini come lo eravamo stati quando era balzata indietro. Mi guardava la pelle e gli occhi; e all’improvviso tese di nuovo le mani e mi toccò il viso.
«Non sei vivo!» La percezione agghiacciante s’irradiò da lei in silenzio. «Sei trasformato in qualcosa. Ma non sei vivo.»
Dissi «no», quietamente. Non era giusto. Le trasmisi un torrente di immagini, una successione di visioni di ciò che era divenuta la mia esistenza. Frammenti della trama di Parigi notturna, la sensazione di una lama che fendeva in silenzio il mondo.
Esalò un respiro sibilante. La sofferenza serrò il pugno dentro di lei e snudò gli artigli. Lei deglutì, strinse le labbra. I suoi occhi mi guardavano e ardevano. Ora sapeva che le comunicazioni non erano sensazioni bensì pensieri.
«E come, allora?» chiese.
Senza interrogarmi su ciò che intendevo fare, le raccontai tutto fase per fase, la finestra sfondata oltre la quale ero stato trascinato dalla figura spettrale che mi aveva spiato a teatro, la torre e lo scambio del sangue. Le rivelai della cripta dove dormivo e del suo tesoro, dei miei vagabondaggi e dei miei poteri e soprattutto della natura della sete. Il sapore e la sensazione del sangue, e ciò che significava quando ogni passione si concentrava in quel desiderio, un desiderio che doveva essere soddisfatto continuamente con il nutrimento e la morte.