La sofferenza la tormentava, ma lei non la sentiva più. Mentre mi fissava, sembrava che di lei fossero rimasti soltanto gli occhi. E, sebbene non avessi intenzione di rivelare tutte queste cose, mi accorsi che l’avevo afferrata per le spalle e la facevo volgere in modo che la luce delle carrozze di passaggio per il Lungosenna mi investisse in pieno la faccia.
Senza staccare gli occhi da lei, presi il candeliere d’argento dal davanzale, lo sollevai e piegai lentamente il metallo, attorcendolo in spire e volute.
La candela cadde sul pavimento.
Mia madre roteò gli occhi. Scivolò all’indietro, lontano da me; e nel momento in cui si aggrappava con la mano sinistra alle tende del letto, il sangue le fiottò dalla bocca.
Le usciva dai polmoni in un grande colpo di tosse silenzioso. Lei scivolò in ginocchio e il sangue si sparse sul lato del letto.
Guardai l’oggetto d’argento contorto che avevo in mano, gli stupidi avvolgimenti che non significavano nulla, e lo lasciai cadere. Guardai mia madre che lottava contro lo svenimento e la sofferenza, e si asciugava la bocca sulle coperte, con i movimenti torpidi di un ubriaco che vomita, mentre si accasciava incapace di sostenersi.
Le stavo accanto. La osservavo, e la sua sofferenza momentanea non significava nulla alla luce della promessa che le stavo rivolgendo. Non erano parole, ma uno slancio silenzioso: e l’interrogativo, più immenso di quanto fosse possibile renderlo in parole: Vuoi venire con me, ora? Vuoi venire con me in questa realtà?
Non ti nascondo nulla, né la mia ignoranza né la mia paura, né il terrore che il tentativo possa fallire. Non so neppure se è qualcosa che posso dare più di una volta, non so quale sia il prezzo del dono; ma per te rischierò, e lo scopriremo insieme, quali che siano il mistero e il terrore, come io ho scoperto da solo tutto il resto.
Con tutto il suo essere, mia madre rispose: Sì.
«Sì!» urlò all’improvviso, ebbra, con una voce che forse era sempre stata sua ma che io non avevo mai udito. Chiuse gli occhi e girò la testa da sinistra a destra. «Sì!»
Mi tesi e baciai il sangue sulle sue labbra aperte. Ciò suscitò un fremito nelle mie membra; la sete si scatenò e cercò di trasformarla in un semplice essere di carne. Cinsi con le braccia la figura esile e la sollevai, la sollevai contro la finestra. I suoi capelli s’erano sciolti e il sangue le usciva di nuovo dai polmoni, ma ormai non aveva importanza.
Tutti i ricordi della mia vita con lei ci circondavano; intessevano un sudario intorno a noi e ci isolavano dal mondo, le dolci poesie e le canzoni dell’infanzia e la sensazione della sua presenza prima delle parole, quando esistevano solo il palpito della luce sul soffitto sopra ai suoi cuscini, e il suo profumo intorno a me, la sua voce che placava il mio pianto, e l’odio per lei e il bisogno di lei, e l’impressione di averla perduta dietro mille porte chiuse, e le risposte crudeli, e il terrore di lei e la sua complessità e la sua indifferenza e la sua forza indefinibile.
E da quella corrente emerse la sete che non cancellava ma riscaldava ogni idea di lei, fino a quando fu carne e sangue e sangue e madre e amante e ogni cosa sotto la pressione crudele delle mie dita e delle mie labbra, tutto ciò che avevo desiderato nella mia esistenza. Affondai in lei i denti e la sentii irrigidirsi e gemere, e sentii la mia bocca allargarsi per catturare il fiotto caldo.
Il mio cuore e la mia anima si schiantarono. Non vi era età in lei, non vi era un momento singolo. La conoscenza si offuscò e non vi fu più una madre, né un bisogno meschino né un meschino terrore. Era semplicemente chi era. Era Gabrielle.
E tutta la sua vita venne in sua difesa, gli anni di sofferenza e di solitudine, la consunzione in quelle stanze umide e cavernose dov’era condannata a esistere, i libri che erano la sua consolazione, e i figli che la divoravano e l’abbandonavano, e la sofferenza e le malattie, la sua ultima nemica che, promettendo la liberazione, s’era finta amica. Al di là delle parole e delle immagini giunsero i palpiti segreti della sua passione, la sua follia apparente e il rifiuto di disperare.
La sostenevo, la tenevo sospesa, con le braccia incrociate dietro la schiena magra, le sorreggevo con la mano la testa inerte, e gemevo così forte al palpito del sangue, che era un canto con lo stesso ritmo del suo cuore. Ma il cuore rallentava i battiti troppo rapidamente. Stava giungendo la morte; con tutta la volontà lei lottava, e in un ultimo sussulto di rifiuto la scostai da me e la tenni ferma.
Mi sentivo quasi venir meno. La sete voleva il suo cuore. La sete non era un alchimista. E io stavo lì con le labbra socchiuse e gli occhi vitrei e la tenevo lontana, lontana da me come se fossimo due esseri, uno che voleva schiacciarla, l’altro che voleva attirarla a sé.
I suoi occhi erano aperti e parevano ciechi. Per un momento fu in un luogo al di là in ogni sofferenza, dove non c’era altro che dolcezza e qualcosa che poteva essere addirittura comprensione: ma poi la sentii chiamarmi per nome.
Mi portai alla bocca il mio polso destro, lacerai la vena e gliela premetti contro le labbra. Non si mosse, mentre il sangue le scorreva sulla lingua.
«Bevi, madre», dissi freneticamente, e premetti con più forza. Ma era già iniziato un mutamento.
Le sue labbra fremettero, la sua bocca si chiuse e una sofferenza improvvisa mi invase e mi avvolse il cuore.
Si tese, e con la mano sinistra mi afferrò il polso mentre inghiottiva il primo fiotto. La sofferenza divenne più forte, sempre più forte, e quasi gridai. La vedevo come se fosse un metallo fuso che mi scorreva nelle vene e si ramificava in ogni arto. Tuttavia era soltanto lei che aspirava e suggeva e mi riprendeva il sangue che le avevo tolto. Adesso era in piedi, con la testa appena protesa contro il mio petto. Un intorpidimento s’impadronì di me, mentre l’aspirazione continuava e bruciava, e il mio cuore tuonava e nutriva la sofferenza, così come nutriva mia madre a ogni pulsazione.
Aspirava sempre più forte e più in fretta; sentii la sua stretta farsi più intensa, il suo corpo irrigidirsi. Avrei voluto allontanarla, ma non lo feci; e quando le gambe mi mancarono, fu lei a sostenermi. Vacillavo e la stanza roteava, ma lei continuò. Un silenzio immane si estese da me in tutte le direzioni: e poi, senza volerlo coscientemente, la respinsi.
Mia madre barcollò e si fermò accanto alla finestra, con le dita premute sulla bocca aperta. E, prima che io mi voltassi e mi lasciassi cadere sulla poltrona, guardai per un istante il suo volto bianco, la figura che sembrava colmarsi sotto l’involucro sottile del taffetà blu, gli occhi come due globi di cristallo che raccoglievano la luce.
In quell’istante, credo, dissi «Madre» come uno stupido mortale, e chiusi gli occhi.
2.
Ero seduto sulla poltrona. Mi sembrava d’aver dormito per un’eternità, ma non avevo dormito affatto. Ero nella casa di mio padre.
Mi guardai intorno per cercare l’attizzatoio e i miei cani, e per vedere se era rimasto un po’ di vino; e scorsi i tendaggi dorati alle finestre, e l’abside di Notre-Dame contro il cielo stellato della sera, e vidi lei. Eravamo a Parigi. E saremmo vissuti per sempre. Lei aveva qualcosa nelle mani. Un altro candeliere. Una scatoletta con esca, acciarino e pietra focaia. Stava diritta e i suoi movimenti erano svelti. Produsse una scintilla e accese le candele, a una a una. Le fiammelle si alzarono, i fiori dipinti sulle pareti salivano verso il soffitto, e sul soffitto le ninfe danzanti si mossero per un momento e quindi rimasero di nuovo immobili.