Stava davanti a me con il candeliere nella destra. Il suo viso era candido e perfettamente liscio. I cerchi scuri sotto gli occhi erano spariti, ogni difetto era scomparso, anche se non saprei dirvi quale difetto fosse. Adesso era perfetta.
E le rughe dell’età erano ridotte e stranamente approfondite; c’erano minuscole grinze del riso agli angoli degli occhi e della bocca. Le palpebre erano lievi pieghe della pelle che intensificavano la simmetrìa del viso triangolare, e le labbra erano della più dolce sfumatura di rosa. Appariva delicata come può apparirlo un diamante assediato dalla luce. Chiusi gli occhi, li riaprii e vidi che non era un’illusione come non era un’illusione il suo silenzio. Vidi che il suo corpo era cambiato ancor più profondamente. Aveva la pienezza della gioventù, e i seni che il male aveva fatto avvizzire s’incurvavano sopra il taffetà blu del corsetto, e il lieve colore rosato della carnagione era così sottile che poteva essere dovuto a un riflesso di luce. Ma i capelli erano ancora più sorprendenti perché sembravano vivi. Erano così animati di colore che parevano fremere; miliardi di ciocche minuscole che si agitavano intorno al viso bianco e alla gola.
Le ferite sul collo erano scomparse.
Ora non restava che l’ultimo atto di coraggio. Guardarla negli occhi.
Guarda con occhi di vampiro un altro essere come te, per la prima volta da quando Magnus si è gettato nel fuoco.
Dovevo aver emesso un suono perché mia madre reagì. Gabrielle, era l’unico nome con cui potevo chiamarla, ora. «Gabrielle», le dissi. Non l’avevo mai chiamata così se non nei miei pensieri più segreti, e la vidi quasi sorridere.
Mi guardai il polso. La ferita era sparita, ma la sete mi rodeva. Le mie vene mi parlavano come se io avessi parlato loro. La guardai e la vidi muovere le labbra in un piccolo gesto di me. Mi rivolse un’espressione strana e significativa, come per chiedermi: «Non capisci?»
Ma non udivo nulla. Silenzio. Solo la bellezza dei suoi occhi che mi guardavano, e forse l’amore con cui ci vedevamo: ma il silenzio si estendeva in ogni direzione e non ratificava nulla. Non potevo sondarlo. Mi chiudeva la sua mente? Glielo domandai in silenzio, ma mi sembrò che non comprendesse.
«Ora», disse, e la sua voce mi fece trasalire. Era più sommessa e risonante di prima. Per un momento fummo in Alvernia: nevicava e lei cantava per me e il suo canto echeggiava come in una grande caverna. Ma finì subito. Disse: «Vai… finisci con tutto questo, subito… ora!» Annuì, suasivamente, si avvicinò e mi prese per mano. «Guardati allo specchio», sussurrò.
Ma io sapevo. Le avevo dato più sangue di quanto ne avessi preso da lei. Ero affamato. Non mi ero neppure nutrito prima di andare a trovarla.
Ero così preso dal suono delle sillabe e dalla visione della neve che scendeva e dal ricordo del suo canto che per un momento non reagii. Guardai le dita che toccavano le mie, e vidi che la nostra carne era la stessa. Mi alzai, le presi le mani, le toccai le braccia e il viso. C’ero riuscito ed ero ancora vivo! Ora lei era con me. Aveva superato la solitudine spaventosa ed era con me, e all’improvviso non potevo pensare ad altro, se non a tenerla stretta, stringerla a me e non lasciarla mai.
La sollevai tra le braccia e girammo tutt’intorno.
Rovesciò la testa all’indietro e proruppe in una risata sempre più forte, fino a che le coprii la bocca con la mano.
«Puoi infrangere tutti i vetri della stanza con la tua voce», bisbigliai. Guardai la porta. Là fuori c’erano Nicki e Roget.
«Allora lascia che li infranga!» disse lei. La sua espressione non era scherzosa. La posai. Ci abbracciammo di nuovo, scioccamente. Non sapevo trattenermi.
Ma nell’appartamento si muovevano altri mortali; il dottore e le infermiere pensavano che fosse loro dovere entrare.
La vidi guardare la porta. Anche lei li udiva. Ma perché io non la udivo?
Si staccò da me, e girò lo sguardo da un oggetto all’altro. Riprese il candeliere e lo portò allo specchio. Si guardò in viso.
Comprendevo ciò che stava succedendo. Aveva bisogno di tempo per vedere e per misurare con la sua vista nuova. Ma dovevamo lasciare l’appartamento.
Sentivo la voce di Nicki al di là del muro. Insisteva perché il dottore bussasse.
Come potevo portarla fuori di lì, come potevo liberarmi di loro?
«No, non di là», disse lei quando mi vide guardare la porta.
Guardava il letto, gli oggetti sul tavolo. Andò a prendere i suoi gioielli sotto il cuscino. Li esaminò e li rimise nella borsa di velluto liso, e se l’agganciò alla cintura, in modo che restasse nascosta tra le pieghe della gonna.
Quei piccoli gesti avevano un’aria d’importanza. Sebbene la sua mente non mi comunicasse nulla, sapevo che non voleva prendere altro in quella camera. Si congedava dalle cose, dagli abiti che aveva portato, l’antica spazzola d’argento e il pettine, e i libri sciupati che stavano sul tavolo accanto al letto.
Bussarono alla porta.
«Perché non da qui?» chiese lei. Si voltò verso la finestra e la spalancò. La brezza agitò i tendaggi dorati, le sollevò i capelli: e quando si voltò, rabbrividii nel vederla con i capelli aggrovigliati intorno al viso, gli occhi grandi e pieni di una miriade di frammenti di colore e d’una luce quasi tragica. Non aveva paura di niente.
La strinsi e per un momento non la lasciai. Le nascosi il volto tra i capelli, e seppi pensare soltanto che eravamo insieme e che nulla ci avrebbe più separati. Non comprendevo il suo silenzio, non capivo perché non potevo udirla; ma sapevo che non era opera sua e forse pensavo che sarebbe passato. Era con me. Quello era il mondo. La morte era il mio comandante e le davo mille vittime, ma le avevo strappato mia madre dalle mani. Lo dissi ad alta voce. Dissi altre cose assurde e disperate. Eravamo esseri terribili e letali, tutti e due, e vagavamo nel Giardino Selvaggio, e io cercavo di rendere reale per lei, con le immagini, il significato del Giardino Selvaggio… ma non aveva importanza e lei non capiva. «Il Giardino Selvaggio.» Ripeté le parole con reverenza, e le sue labbra si atteggiarono a un lieve sorriso.
Era come un palpito nella mia mente. Sentii che mi baciava e bisbigliava, quasi per accompagnare i miei pensieri.
«Ma ora aiutami», disse. «Voglio vederti mentre lo fai, ora, e poi avremo tutto il tempo per stare abbracciati. Vieni.»
La sete. Bruciavo. Avevo bisogno di sangue, e lei voleva sentirne il sapore. Ne ero certo. Perché ricordavo che anch’io l’avevo voluto, quella prima notte. Pensai che la sofferenza della morte fisica, dei fluidi che l’abbandonavano, poteva essere diminuita se prima avesse potuto bere.
Bussarono di nuovo. La porta non era chiusa a chiave.
Montai sul davanzale della finestra e mi voltai, e immediatamente lei fu tra le mie braccia. Non aveva peso, ma sentivo la sua forza e la tenacia della sua stretta. Tuttavia, quando vide il vicolo sottostante, la sommità del muro e il Lungosenna, per un momento parve assalita dal dubbio.
«Mettimi le braccia al collo», dissi, «e tieniti stretta.»
Salii sulle pietre, tenendola sospesa con il viso levato verso di me, fino a quando raggiungemmo le tegole scivolose del tetto.
Poi le presi la mano e l’attirai con me, corsi sempre più svelto tra grondaie e comignoli, e balzai attraverso i vicoletti. Alla fine arrivammo dall’altra parte dell’isola. Mi aspettavo che da un momento all’altro lei gridasse o si aggrappasse a me: ma non aveva paura.
Rimase in silenzio a guardare i tetti della Riva Sinistra e il fiume affollato di migliaia di piccole barche piene di esseri lacerati; e per un momento parve semplicemente ascoltare il vento che le scioglieva i capelli. Sarei potuto cadere in uno stato di stupore mentre la guardavo e studiavo ogni aspetto della trasformazione: ma smaniavo di condurla nella città, di rivelarle tutto, di insegnarle ciò che avevo imparato. Ora non conosceva più lo sfinimento fisico, come non lo conoscevo io. E non era sconvolta dall’orrore, diversamente da quanto era accaduto a me quando Magnus s’era buttato nel fuoco.