Una carrozza passò veloce sul Lungosenna, sbandando verso il fiume; il cocchiere stava curvo e cercava di non perdere l’equilibrio. L’indicai quando si avvicinò, e strinsi la mano di mia madre.
Balzammo quando passò sotto di noi e atterrammo senza far rumore sul tettuccio di pelle. Il cocchiere non si voltò. Strinsi mia madre per sostenerla, e viaggiammo così, pronti a balzare via dal veicolo quando avessimo voluto.
Era indicibilmente eccitante fare tutte queste cose assieme a lei.
Passammo sul ponte, davanti alla cattedrale e tra la folla sul Pont Neuf. Sentii di nuovo la sua risata. Mi domandavo cosa vedevano coloro che guardavano dalle finestre in alto… due figure abbigliate con eleganza che si aggrappavano al tetto traballante della carrozza come bambini decisi a divertirsi.
La carrozza svoltò. Stavamo correndo verso St.-Germain-des-Prés, mentre la folla si disperdeva davanti a noi. Passammo oltre il lezzo intollerabile del Cimitero degli Innocenti, in mezzo a caseggiati altissimi.
Per un secondo sentii il barbaglio della presenza; ma passò così in fretta che dubitai di me stesso. Mi voltai a guardare e non la colsi più. E con straordinaria vivezza compresi che io e Gabrielle avremmo parlato della presenza, che avremmo parlato di tutto, avremmo affrontato tutto insieme. Poteva essere a suo modo sconvolgente come la notte che Magnus mi aveva trasformato; e questa notte era appena incominciata.
La zona era perfetta, adesso. Le presi di nuovo la mano, la tirai giù dalla carrozza, in strada.
Gabrielle fissò stordita le ruote che giravano: ma sparirono subito in lontananza. Non sembrava scarmigliata, ma piuttosto impassibile, una donna strappata al tempo e al luogo, senza catene, libera di volare.
Entrammo in un vicoletto e corremmo abbracciati; ogni tanto abbassavo lo sguardo e la vedevo scrutare i muri, le dozzine di finestre chiuse che lasciavano filtrare un po’ di luce.
Sapevo che cosa vedeva. Conoscevo i suoni che le giungevano. Tuttavia non udivo nessuna comunicazione da parte sua, e mi spaventava un po’ pensare che forse mi escludeva volutamente.
Ma si era fermata. Era colpita dalla prima convulsione della morte. Glielo vedevo in faccia.
La rassicurai e le rammentai in fretta la visione che prima le avevo comunicato.
«È una sofferenza breve, e non è nulla in confronto a ciò che hai conosciuto. Passerà in poche ore, e forse anche in meno tempo, se berremo subito.»
Annuì, più impaziente che spaventata.
Giungemmo in una piazzetta. Sotto il portone d’una vecchia casa c’era un giovane che sembrava attendere qualcosa, con il colletto del mantello grigio sollevato per ripararsi la faccia.
Gabrielle era abbastanza forte per affrontarlo? Era forte come me? Era venuto il momento di scoprirlo.
«Se la sete non ti trascina a farlo, allora è troppo presto», le dissi.
La guardai e mi sentii agghiacciare. La sua espressione concentrata era quasi del tutto umana, tanto era intenta e fissa; e gli occhi erano ombrati dallo stesso senso di tragedia che avevo scorto poco prima. Non le sfuggiva nulla. Ma, quando si mosse verso l’uomo, non era affatto umana. Era diventata una predatrice allo stato puro, come può esserlo soltanto una belva: e tuttavia era una donna che si avviava a passo lento verso un uomo… una signora, anzi, sperduta senza mantello, senza cappello e senza compagnia, che si avvicinava a un gentiluomo per chiedere il suo aiuto. Era tutto questo.
Era terribile vedere il modo in cui si muoveva sul selciato come se non lo toccasse, e il modo in cui tutto, persino le ciocche dei capelli agitati dal vento, sembrava obbedirle. Avrebbe potuto persino attraversare il muro con quel passo risoluto.
Mi ritrassi nell’ombra.
L’uomo si scosse, si voltò verso di lei facendo scricchiolare leggermente il tacco dello stivale sui ciottoli, e lei si sollevò in punta di piedi come per parlargli all’orecchio. Credo che esitasse per un momento. Forse era un po’ inorridita. Se lo era, la sete non aveva avuto ancora il tempo di diventare irresistibile. Ma se dubitò, non fu per più di quell’istante. Lo stava prendendo, e l’uomo era indifeso e impotente, e io ero troppo affascinato per fare qualcosa di diverso che osservare.
Ma inaspettatamente rammentai che non l’avevo avvertita a proposito del cuore. Come potevo averlo dimenticato? Corsi verso di lei; ma lei l’aveva già lasciato e l’uomo s’era accasciato contro il muro con la testa reclinata, il cappello a terra. Era morto.
Gabrielle lo guardava, e io vedevo il sangue che operava in lei, la riscaldava e rendeva più intenso il suo colorito, il rosso delle sue labbra. Gli occhi erano un lampo violetto quando mi guardò: avevano quasi esattamente il colore che aveva avuto il cielo quando ero entrato nella sua camera. La osservai in silenzio mentre guardava la vittima con una bizzarra espressione di stupore, come se non accettasse completamente ciò che vedeva. I suoi capelli erano di nuovo aggrovigliati, e io li scostai.
Si abbandonò fra le mie braccia. La guidai lontano dalla vittima. Si voltò indietro un paio di volte, quindi guardò fissamente davanti a sé.
«Basta, per questa notte. Dobbiamo andare alla torre», dissi. Volevo mostrarle il tesoro e stare con lei in quel luogo sicuro, e abbracciarla e confortarla, se avesse incominciato a star male. Era di nuovo in preda agli spasmi della morte. Nella torre avrebbe potuto riposare accanto al fuoco.
«No, non voglio andare subito», disse. «La sofferenza non continuerà a lungo, me l’hai assicurato. Voglio che passi, e voglio stare qui.» Mi guardò e sorrise. «Ero venuta a Parigi per morire, no?» chiese con un sussurro.
Tutto la distraeva: il morto avvolto nel mantello grigio, il cielo che si rispecchiava in una pozzanghera, un gatto che correva su un muro. Il sangue era ardente dentro di lei.
Le presi la mano e l’esortai a seguirmi. «Devo bere», dissi.
«Sì, lo vedo», mormorò Gabrieìle. «Avresti dovuto prenderlo tu. Avrei pensato… Ma sei sempre un gentiluomo.»
«Un gentiluomo affamato», dissi con un sorriso. «Ma non esageriamo al punto d’inventare un’etichetta per i mostri.» Risi. Avrei voluto baciarla, ma all’improvviso fui distratto. Le strinsi la mano troppo forte.
Lontano, nella direzione del Cimitero degli Innocenti, sentii la presenza, più forte che mai.
Gabrielle rimase immobile come me, inclinò adagio la testa e si scostò i capelli dall’orecchio.
«Lo senti?» chiesi.
Mi guardò. «È un altro» Socchiuse gli occhi e guardò di nuovo nella direzione da cui giungevano le emanazioni.
«Fuorilegge!» disse a voce alta.
«Cosa?» Fuorilegge, fuorilegge, fuorilegge. Fui assalito da un’ondata di vertigine, come il ricordo di un sogno. Frammenti di un sogno. Ma non riuscivo a pensare. Ero rimasto menomato nel trasmutare lei. Dovevo bere.
«Ci ha chiamati fuorilegge», disse. «Non l’hai sentito?» Ascoltò di nuovo. Ma la presenza era svanita e nessuno dei due la udiva più. E non potevo essere certo di aver percepito quella comunicazione, fuorilegge, ma mi sembrava di sì.
«Non badargli, qualunque cosa sia», dissi. «Non si avvicina mai più di così.» Ma, mentre parlavo, sapevo che questa volta era stato più virulento. Volevo allontanarmi dal Cimitero degli Innocenti. «Vive nei camposanti», mormorai. «Forse non può vivere altrove… a lungo.»