Ma, prima che avessi finito di parlare, lo sentii di nuovo. Pareva espandersi e irradiarsi la malevolenza più forte che avessi mai captato.
«Ride!» mormorò Gabrielle.
La scrutai. Senza dubbio l’udiva più chiaramente di me.
«Sfidalo!» dissi. «Dagli del vigliacco! Digli di venire fuori!»
Gabrielle mi guardò, sorpresa.
«Lo vuoi davvero?» mi chiese sottovoce. Tremava leggermente; la sostenni. Si passò una mano sullo stomaco, come se gli spasmi la riassalissero.
«Allora non adesso», dissi. «Non è il momento. E lo sentiremo ancora, quando l’avremo dimenticato.»
«È andato», disse Gabrielle. «Ma ci odia…»
«Allontaniamoci», la esortai in tono sprezzante. La cinsi con un braccio e mi avviai.
Non le dissi che cosa pensavo, e che cosa mi opprimeva assai più della presenza e dei suoi trucchi abituali. Se poteva udire la presenza come me o addirittura meglio, allora aveva tutti i miei stessi poteri, inclusa la capacità di emettere e di captare immagini e pensieri. Eppure non potevamo più udirci tra noi!
3.
Trovai una vittima non appena avemmo attraversato il fiume; e nell’istante in cui scorsi l’uomo sentii, ancora più intensamente, che tutto ciò che avevo fatto da solo ora l’avrei fatto con Gabrielle. Avrebbe assistito alla scena, avrebbe imparato. L’idea di quell’intimità mi fece affluire il sangue al volto.
E mentre attiravo il mio uomo fuori dalla taverna e lo sfidavo e lo facevo infuriare e poi lo uccidevo, mi rendevo conto che mi mettevo in mostra per lei e rendevo quella scena un po’ più crudele e giocosa. E, quando venne il momento dell’uccisione, ebbe un’intensità che poi mi lasciò esausto.
A lei piacque. Osservava tutto come se potesse suggere la visione allo stesso modo in cui suggeva il sangue. Ci riaccostammo, la presi fra le braccia e sentii il suo calore, e lei sentì il mio calore. Il sangue mi inondava il cervello. E ci tenevamo abbracciati, e persino l’involucro leggero dei nostri indumenti sembrava estraneo. Eravamo due statue ardenti nell’oscurità.
Poi la notte perse le sue dimensioni normali. Anzi, rimane una delle notti più lunghe che abbia conosciuto nella mia vita immortale.
Fu interminabile e sconfinata e travolgente; e c’erano momenti in cui avrei desiderato una difesa contro i suoi piaceri e le sue sorprese… e non l’avevo.
E sebbene pronunciassi di continuo il suo nome perché diventasse naturale, per me non era ancora Gabrielle. Era semplicemente lei, quella di cui avevo sentito il bisogno con tutto il mio essere, per tutta la vita. La sola donna che avessi amata. La sua morte non durò a lungo.
Cercammo una cantina vuota e vi restammo fino a che non fu finita. Poi la tenni abbracciata e le parlai. Le dissi ancora una volta tutto ciò che mi era accaduto, e lo dissi a parole.
Le dissi tutto della torre. Le riferii tutto ciò che aveva detto Magnus. Spiegai tutte le apparizioni della presenza, e come mi ero abituato e come la disprezzavo e non volevo inseguirla. Cercai più volte di trasmettere le immagini, ma era inutile. Non dissi nulla in proposito. Neppure lei disse nulla. Mi ascoltò molto attentamente.
Le parlai dei sospetti di Nicki, i sospetti che non le aveva confidato. E spiegai che adesso temevo per lui, più che mai. Un’altra finestra aperta, un’altra stanza vuota; e questa volta i testimoni per confermare la stranezza dell’avvenimento.
Ma non aveva importanza: avrei raccontato a Roget una storia che avrebbe reso tutto plausibile. Avrei trovato un modo per mettere le cose a posto con Nicki, per spezzare la catena dei sospetti che lo legava a me.
Gabrielle sembrava oscuramente affascinata da tutto questo; ma per lei non aveva molta importanza. Ciò che aveva importanza era quanto l’attendeva.
E quando la sua morte si fu conclusa, divenne inarrestabile. Non c’era muro che non potesse salire, non c’era porta che non volesse varcare, non c’era tetto troppo ripido.
Sembrava non credesse che sarebbe vissuta in eterno, e pensasse invece di aver avuto in dono quell’unica notte di vitalità soprannaturale e di dover conoscere e compiere tutto prima che la morte venisse per portarla via, all’alba.
Molte volte cercai di convincerla a venire alla torre. Mentre le ore passavano, uno sfinimento spirituale mi sopraffece. Sentivo il bisogno di stare in pace, di riflettere sull’accaduto. Avrei aperto gli occhi e avrei visto per un istante soltanto la tenebra. Ma lei voleva solo abbandonarsi a esperimenti e avventure.
Propose di entrare nelle dimore dei mortali per prendere gli abiti che le erano necessari. Rise quando le dissi che i miei li avevo sempre acquistati correttamente.
«Possiamo sentire se una casa è vuota», disse avviandosi a passo svelto per le strade, con gli occhi levati verso le finestre degli edifici bui. «Possiamo sentire se i servitori dormono.»
Era logico, anche se io non l’avevo mai fatto. La seguii per le scale secondarie, lungo i corridoi, sorpreso della facilità di tutto e affascinato dai dettagli delle stanze in cui vivevano i mortali. Scoprii che mi piaceva toccare gli oggetti personali: ventagli, tabacchiere, il giornale che il padrone di casa aveva letto, i suoi stivali accanto al camino. Era divertente come spiare dalle finestre.
Ma Gabrielle aveva uno scopo preciso. Nello spogliatoio di una grande casa di St.-Germain trovò una quantità di vestiti lussuosi, adatti alla sua figura più tornita. L’aiutai a togliersi il vecchio abito di taffetà e indossarne uno di velluto rosa, a raccogliersi i capelli in riccioli ordinati sotto un cappello ornato di piume di struzzo. Fui scosso ancora una volta dalla vista di lei, e dalla sensazione bizzarra che mi dava aggirarmi con lei in quella casa piena di mobili e di odori mortali. Lei aveva preso una quantità di oggetti dal tavolo da toeletta. Una boccetta di profumo, un paio di forbicine d’oro. Si guardava allo specchio.
Mi accostai per baciarla di nuovo e non me lo impedì. Eravamo due innamorati che si baciavano: era l’immagine che offrivamo, due innamorati dal volto bianco, mentre scendevamo correndo la scala di servizio e uscivamo per le strade.
Entrammo e uscimmo dall’Opera e dalla Comédie prima che chiudessero, e poi andammo al ballo al Palais Royal. La entusiasmava il pensiero che i mortali ci vedevano ma non ci vedevano, erano attratti da noi e si lasciavano ingannare completamente.
Poi udimmo la presenza molto nettamente, mentre esploravamo le chiese; quindi svanì di nuovo. Salimmo sui campanili per osservare il nostro regno, quindi per un po’ visitammo i caffè affollati, per sentire i mortali intorno a noi e scambiarci occhiate segrete e ridere sommessamente, tète-à-tète.
Gabrielle piombava in stati onirici mentre guardava il vapore che saliva dalla tazza del caffè, il fumo del tabacco che aleggiava intorno alle lampade.
Ma amava più di ogni altra cosa le vie buie e deserte e l’aria pura. Voleva salire sugli alberi e sui tetti. Si meravigliava perché io non mi spostavo sempre attraverso la città passando dai tetti, o viaggiando clandestinamente sulle carrozze come avevamo fatto insieme.
Un po’ dopo mezzanotte arrivammo nel mercato deserto, tenendoci per mano.
Avevamo appena udito di nuovo la presenza, ma nessuno dei due riusciva a discernere una disposizione, com’era avvenuto prima. E questo mi sconcertava.
Ma intorno a noi tutto la sorprendeva ancora… i rifiuti, i gatti che inseguivano i topi, il silenzio bizzarro, il fatto che gli angoli più bui della metropoli non rappresentassero un pericolo per noi. Lo disse. Forse era questo che l’incantava più di ogni altra cosa… il pensiero che potevamo passare davanti ai covi dei ladri senza che ci sentissero, che potevamo battere facilmente chiunque fosse tanto pazzo da disturbarci, che eravamo nel contempo visibili e invisibili, concreti e assolutamente inspiegabili.