Выбрать главу

Non le mettevo fretta e non le facevo domande. Mi lasciavo guidare da lei, contento, e a volte mi perdevo nei miei pensieri, interrogandomi su quella strana contentezza.

E quando un bel giovane snello passò a cavallo tra i banchi bui, lo guardai come se fosse un’apparizione giunta dalla terra dei vivi alla terra dei morti. Mi ricordava Nicolas perché aveva i capelli e gli occhi scuri, e il viso aveva qualcosa d’innocente e nel contempo di cupo. Non avrebbe dovuto avventurarsi da solo nel mercato. Era più giovane di Nicki e molto sciocco.

Ma non compresi fino a che punto fosse sciocco sino a che Gabrielle avanzò come un grande felino roseo e, quasi senza far rumore, lo strappò dalla sella.

Ero sconvolto. L’innocenza delle sue vittime non la turbava. Non combatteva le mie battaglie morali. Del resto, non le combattevo più neppure io, quindi perché dovevo giudicarla? Tuttavia, la facilità disinvolta con cui uccise il giovane, spezzandogli elegantemente il collo quando i pochi sorsi di sangue che gli aveva sottratto non bastarono a dargli la morte, mi fece adirare anche se era stato uno spettacolo eccitante.

Era più fredda di me. Era più abile di me, pensavo. Magnus mi aveva detto: «Non mostrare misericordia». Ma aveva forse inteso dire che dovevamo uccidere quando non era necessario?

In un istante compresi perché l’aveva fatto. Si strappò la veste di velluto rosa e indossò gli abiti del giovane. Lo aveva scelto perché i suoi panni le andavano bene.

E per descriverlo più esattamente… quando mise gli indumenti, divenne quel ragazzo.

Mise le calze di seta color panna e le brache scarlatte, la camicia di pizzi e il panciotto giallo e poi la giacca scarlatta, e prese persino il nastro scarlatto dai capelli del giovane.

Qualcosa si ribellò dentro di me… lei, audace nell’abbigliamento nuovo, con i capelli ancora sciolti sulle spalle, simili più alla criniera di un leone che alla massa splendida di una chioma femminile com’era stata pochi istanti prima. Avrei voluto aggredirla. Chiusi gli occhi.

Quando tornai a guardarla, la testa mi girava per tutto ciò che avevamo visto e fatto insieme. Non sopportavo d’essere tanto vicino al ragazzo morto.

Si legò i capelli biondi con il nastro scarlatto e li lasciò ricadere sulle spalle. Stese l’abito rosa sul corpo del ragazzo per coprirlo, si agganciò la spada alla cintura, la sguainò e la rinfoderò e prese il roquelaure color crema.

«Andiamo, tesoro», disse, e mi baciò.

Non riuscii a muovermi. Volevo tornare alla torre e starle vicino. Mi guardò e mi strinse la mano per esortarmi. E quasi subito corse via, precedendomi.

Doveva sentire la libertà delle membra, e mi ritrovai a inseguirla e a sforzarmi per raggiungerla.

Non era mai accaduto tra me e un mortale, naturalmente. Sembrava che volasse. E vederla sfrecciare tra i chioschi chiusi e i mucchi d’immondizia mi faceva quasi perdere l’equilibrio. Mi fermai di nuovo.

Tornò indietro e mi baciò. «Ma non c’è una vera ragione perché continui a vestirmi in quel modo, vero?» chiese. Sembrava che parlasse a un bambino.

«No, naturalmente», dissi. Forse era una fortuna che non potesse leggere i miei pensieri. Non riuscivo a smettere di guardarle le gambe, così perfette nelle calze color panna. E la giacca, così attillata intorno alla vita snella. Il suo viso era come una fiamma.

Ricordate che a quei tempi non si vedevano mai così le gambe di una donna, la seta delle brache tesa sul ventre e sulle cosce.

Ma adesso non era veramente una donna, no? Come io non ero un uomo. Per un secondo di silenzio, l’orrore mi colpì.

«Vieni, voglio passare di nuovo per i tetti», mi disse. «Voglio andare al Boulevard du Temple. Voglio vedere il teatro, quello che hai acquistato e poi hai chiuso. Me lo mostrerai?» Mi stava osservando, mentre lo chiedeva.

«Naturalmente», risposi. «Perché no?»

Ci rimanevano due ore di quella notte interminabile quando finalmente tornammo all’Ile St.-Louis e ci fermammo sul Lungosenna, al chiaro di luna. Più avanti, sulla strada, vedevo la mia cavalla legata dove l’avevo lasciata. Forse nessuno l’aveva notata nella confusione che doveva essere seguita alla nostra fuga.

Ascoltammo attenti, per captare qualche segnale della presenza di Nicki o di Roget; la casa sembrava buia e deserta.

«Ma sono vicini», mormorò Gabrielle. «Credo che siano un po’ più avanti…»

«L’appartamento di Nicki», dissi io. «E dall’appartamento di Nicki qualcuno potrebbe tener d’occhio la cavalla, forse un servitore appostato per spiarci, nel caso che tornassimo.»

«È meglio lasciare la cavalla e rubarne un’altra», disse lei.

«No, è mia», risposi. Ma poi sentii che mi stringeva più forte la mano.

Era di nuovo il nostro vecchio amico, la presenza. Questa volta si muoveva lungo la Senna, dall’altra parte dell’isola e in direzione della Riva Sinistra.

«È sparito», disse Gabrielle. «Andiamo. Possiamo rubare un altro cavallo.»

«Aspetta: cercherò di farla venire da me. Di spezzare la briglia.»

«Puoi riuscirci?»

«Vedremo.» Concentrai tutta la mia forza di volontà sulla cavalla, le ordinai silenziosamente di indietreggiare, di sciogliersi e di venire da me.

In un secondo la cavalla incominciò a scalpitare e a tirare la briglia. Poi s’impennò e la ruppe.

Corse verso di noi. Le balzammo subito in groppa. Gabrielle montò per prima, e io dietro di lei. Strinsi ciò che restava della briglia e lanciai la cavalla.

Mentre attraversavamo il ponte, sentii qualcosa dietro di noi, un’agitazione, il tumulto di numerose menti mortali.

Ma eravamo perduti nella nera camera echeggiante dell’Ile de la Cité.

Quando arrivammo alla torre, accesi la torcia resinosa e condussi Gabrielle con me nella segreta. Non avevo tempo di mostrarle la camera superiore.

Aveva gli occhi vitrei e si guardava intorno stordita mentre scendevamo la scala a chiocciola. Gli indumenti scarlatti splendevano contro le pietre scure. Si ritrasse, leggermente, nel sentire l’umidità.

Il lezzo che saliva dalle celle la turbò; ma le dissi gentilmente che non ci riguardava. E appena fummo entrambi nell’immensa cripta, l’odore fu stroncato dalla pesante porta di ferro borchiata.

La luce della torcia rivelò le basse arcate del soffitto, i tre grandi sarcofagi con le immagini scolpite.

Non sembrava spaventata. Le dissi che doveva provare a vedere se riusciva da sola a sollevare il coperchio di quello che intendeva scegliere. Forse avrei dovuto farlo io.

Studiò le tre figure. E dopo un momento di riflessione scelse, non già il sarcofago della donna, ma quello con il cavaliere in armatura. Lentamente, spostò il coperchio di pietra per poter guardare all’interno.

Non era forte come me, ma lo era quanto bastava.

«Non aver paura», dissi.

«No, di questo non dovrai mai preoccuparti», mi rispose. La sua voce aveva un suono deliziosamente fragile, un po’ triste. Sembrava assorta in un sogno, mentre passava le mani sulle pietre.

«A quest’ora», disse, «tua madre sarebbe già stata preparata. E la stanza sarebbe piena di odori orrendi e del fumo di centinaia di candele. Pensa quant’è umiliante la morte. Donne sconosciute le avrebbero tolto gli indumenti, l’avrebbero lavata e rivestita… l’avrebbero vista emaciata e indifesa nell’ultimo sonno. E quelli nei corridoi avrebbero parlato sussurrando della loro buona salute, avrebbero detto che non c’è mai stata una malattia nella loro famiglia, no, che non c’è mai stata la consunzione. ‘Povera marchesa’, avrebbero detto. E si sarebbero chiesti se aveva un po’ di denaro, se l’aveva lasciato ai figli. E la vecchia, venuta a portar via le lenzuola sporche, avrebbe rubato un anello dal dito della morta.»