Annuii. E invece stiamo in questa cripta, avrei voluto dire, e ci prepariamo a stenderci in letti di pietra, e soltanto i ratti ci tengono compagnia. Ma è infinitamente meglio così, no? Ha un suo splendore tenebroso, aggirarsi per sempre nel territorio dell’incubo.
Sembrava debole e fredda. Con un gesto assonnato, prese qualcosa dalla tasca.
Erano le forbicette d’oro che aveva sottratto dalla toeletta della dama, in Faubourg St.-Germain. Luccicavano come un gingillo alla luce della torcia.
«No, madre», dissi. La mia voce mi fece trasalire. Echeggiava troppo acuta sotto il soffitto a volta. Le figure degli altri sarcofagi sembravano testimoni spietati. La sofferenza che provavo nel cuore mi stordiva.
Un suono maligno, lo scatto delle lame. I suoi capelli caddero sul pavimento in lunghe ciocche.
«Ooh, madre.»
Abbassò lo sguardo sui capelli, li scostò con la punta dello stivale. Poi mi guardò. Adesso era senza dubbio un uomo molto giovane, con i capelli corti che si arricciavano contro le guance. Ma i suoi occhi si chiudevano. Tese le mani verso di me e lasciò cadere le forbici.
«Voglio riposare», mormorò.
«È solo il sole che sorge», dissi per rassicurarla. Si indeboliva più rapidamente di me. Si scostò e si avviò verso il sarcofago. La sollevai, e chiuse gli occhi. Spinsi ancora più a destra il coperchio e l’adagiai all’interno, lasciando che le sue membra flessuose si atteggiassero con grazia naturale.
Il viso si era già spianato nel sonno, e i capelli lo incorniciavano in una pettinatura da ragazzo adolescente.
Sembrava morta, sembrava che la magia si fosse annullata.
Continuai a guardarla.
Affondai i denti nella punta della lingua fino a che sentii il dolore e il sapore del sangue caldo. Poi, mi chinai e lasciai che le gocce lucenti di sangue le ricadessero sulle labbra. Gli occhi si aprirono, mi fissarono, azzurro-viola e scintillanti. Il sangue fluì nella bocca socchiusa. Lentamente alzò la testa verso il mio bacio. Le insinuai la lingua tra le labbra fredde. Ma il sangue era caldo e scorreva tra di noi.
«Buonanotte, mia adorata», le dissi. «Mio angelo tenebroso, Gabrielle.»
Si riabbandonò nell’immobilità non appena la lasciai. Richiusi su di lei il coperchio di pietra.
4.
Non mi piaceva svegliarmi nella nera cripta sotterranea, non mi piaceva il freddo nell’aria e il debole lezzo che saliva dalla prigione sottostante e la sensazione che lì giacessero tutte le cose morte.
La paura mi assalì. E se Gabrielle non si fosse destata? Se i suoi occhi non si fossero riaperti? Cosa sapevo di ciò che avevo fatto?
Sembrava tuttavia un gesto arrogante e osceno sollevare di nuovo il coperchio del sarcofago e spiarla nel sonno come avevo fatto la notte precedente. Fui assalito da una vergogna mortale. A casa non avrei mai osato aprire la sua porta senza bussare, non avrei mai osato scostare i tendaggi del suo letto.
Si sarebbe destata. Doveva. Ed era meglio che sollevasse da sola il coperchio di pietra e sapesse alzarsi, era meglio che la sete la spingesse a farlo nel momento opportuno, com’era accaduto con me.
Le accesi la torcia appesa al muro e, per un momento, uscii a respirare l’aria pura. Poi, lasciando aperte le porte, salii nella cella di Magnus per osservare il crepuscolo che svaniva dal cielo.
L’avrei sentita, pensai, quando si fosse svegliata.
Trascorse un’ora, credo. La luce azzurra sbiadì, le stelle spuntarono e la lontana città di Parigi accese la sua miriade di fari minuscoli. Lasciai il davanzale dove mi ero seduto contro le grate di ferro, andai alla cassapanca e cominciai a scegliere i gioielli per lei.
Amava ancora i gioielli. Quando aveva lasciato la sua stanza, aveva portato con sé le sue vecchie gioie. Accesi le candele per vedere meglio, anche se non ne avevo bisogno. L’illuminazione era bellissima: bellissima sulle gemme. Trovai alcune cose deliziose e delicate, spille tempestate di perle che poteva portare sul bavero della giacca e anelli che sarebbero parsi mascolini sulle sue mani minute, se era questo che voleva.
Ogni tanto stavo in ascolto. E il gelo mi attanagliava il cuore. Se non si fosse svegliata? Se avesse potuto vivere solo quell’unica notte? L’orrore palpitava in me. E il mare di gioielli nella cassapanca, la luce delle candele che danzava sulle gemme sfaccettate, le montature d’oro… non significavano nulla.
Ma non la sentivo. Sentivo il vento là fuori, lo stormire degli alberi, il fischiettare lontano del mozzo di stalla che si muoveva nel fienile, il nitrito dei miei cavalli.
In distanza, suonò la campana della chiesa di un villaggio.
E all’improvviso ebbi la sensazione che qualcuno mi osservasse. Era così strana che fui preso dal panico. Mi voltai e per poco non caddi nella cassapanca, fissando l’imboccatura del tunnel segreto. Non c’era nessuno.
In quel piccolo sacrario segreto c’era soltanto la luce delle candele, che brillava sulle pietre preziose, e le sembianze torve di Magnus sul sarcofago.
Guardai di fronte a me, la finestra chiusa dalle sbarre.
E vidi che lei mi guardava.
Sembrava che aleggiasse nell’aria, aggrappata alla grata con entrambe le mani. E sorrideva.
Trattenni a stento un grido. Indietreggiai e cominciai a sudare. Ero imbarazzato perché mi ero lasciato sorprendere così, alla sprovvista.
Ma lei restò immobile e continuò a sorridere e a poco a poco la sua espressione passò dalla serenità alla malizia. La luce delle candele rendeva troppo brillanti i suoi occhi.
«Non è molto cortese spaventare così gli altri immortali», le dissi.
Rise, più libera e disinvolta di quanto fosse stata da viva.
Il sollievo mi inondò quando si mosse. Mi accorsi di arrossire.
«Come sei arrivata lì?» chiesi. Andai alla finestra, protesi le mani fra le sbarre e le strinsi i polsi.
La sua bocca era tutta dolcezza e ilarità. I capelli erano una gran criniera splendente intorno al viso. «Ho scalato il muro, naturalmente», disse. «Come pensavi che ci fossi arrivata?»
«Bene, ora scendi. Non puoi passare attraverso le sbarre. Ti verrò incontro.»
«Hai ragione», disse. «Sono stata a tutte le finestre. Aspettami di sopra, sugli spalti. Faremo prima.»
Cominciò a salire, agganciando gli stivali alle sbarre. E sparì.
Era esuberante quanto la notte precedente, mentre scendevamo insieme le scale.
«Perché indugiamo qui?» chiese, «Perché non andiamo subito a Parigi?»
C’era qualcosa che non andava in lei, per quanto fosse incantevole, qualcosa che non andava… che cos’era?
Ora non voleva baci, e non voleva neppure parlare. E questo mi feriva un po’.
«Voglio mostrarti la camera interna», dissi, «E i gioielli.»
«I gioielli?» chiese.
Dalla finestra non li aveva visti. Il coperchio della cassapanca glieli aveva nascosti. Mi precedette nella stanza dove s’era bruciato Magnus, e passò strisciando nel tunnel.
Appena vide la cassapanca, rimase sconvolta.
Si ributtò i capelli sulle spalle con un moto d’impazienza, e si chinò a studiare le spille, gli anelli, i piccoli ornamenti così simili ai gioielli ereditati che aveva dovuto vendere a uno a uno tanto tempo prima.
«Oh, doveva averli raccolti per secoli», disse. «E che oggetti squisiti. Sapeva scegliere bene ciò che prendeva, no? Doveva essere una creatura eccezionale.»
Si scostò di nuovo i capelli dalla fronte con un gesto quasi irritato. Sembravano più chiari, più abbondanti, più luminosi. Splendidi.