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«Le perle, guardale», dissi. «E gli anelli.» Mostrai quelli che avevo già scelto per lei. Le presi la mano e glieli infilai. Le dita si mossero come se avessero una vita propria e potessero provare gioia. Rise di nuovo.

«Ah, ma noi siamo demoni magnifici, no?»

«I Cacciatori del Giardino Selvaggio», dissi,

«Allora andiamo a Parigi», disse Gabrielle. Un lieve tocco di sofferenza sul suo volto: la sete. Si passò la lingua sulle labbra. Le apparivo affascinante almeno la metà di quanto lei appariva affascinante a me?

Si scostò i capelli dalla fronte, e i suoi occhi si oscurarono per l’intensità delle parole.

«Volevo nutrirmi in fretta, stanotte», disse, «e poi avventurarmi fuori dalla città, nei boschi. Andare dove non vi sono uomini né donne. Andare dove ci sono soltanto il vento e gli alberi, e le stelle lassù. Benedetto il silenzio.»

Tornò alla finestra. Aveva la schiena eretta, le mani abbandonate lungo i fianchi e scintillanti di anelli. E, poiché uscivano dai polsi vistosi di una giacca maschile, le sue mani apparivano ancora più esili e delicate. Doveva guardare le nubi alte e buie, le stelle che ardevano tra gli strati purpurei della nebbia serotina.

«Devo andare da Roget», dissi sottovoce. «Devo provvedere a Nicki, raccontare qualche menzogna su ciò che è accaduto a te.»

Gabrielle si voltò. D’un tratto il suo viso mi apparve minuto e freddo, come era avvenuto a casa quando mi disapprovava. Ma in realtà non avrebbe mai più avuto quell’aspetto.

«Perché dirgli qualcosa di me?» chiese. «Perché preoccuparti ancora per loro?»

Quelle parole mi turbarono. Ma non erano una sorpresa. Forse me le aspettavo. Forse avevo sempre intuito in lei quegli interrogativi inespressi.

Volevo dirle: Nicki era seduto accanto al tuo letto quando stavi per morire, e questo non significa nulla? Ma sembrava così sentimentale e degno di un mortale, e così sciocco.

Ma non era sciocco.

«Non intendo giudicarti», mi disse. Incrociò le braccia e si appoggiò alla finestra. «Non capisco, ecco. Perché ci scrivevi? Perché ci mandavi tutti quei doni? Perché non hai preso questo fuoco bianco dalla luna e non sei andato dove volevi?»

«Ma dove sarei dovuto andare?» ribattei. «Lontano da tutti coloro che avevo conosciuto e amato? Non volevo smettere di pensare a te e a Nicki, e persino a mio padre e ai miei fratelli. Ho fatto ciò che volevo», dissi.

«Allora la coscienza non c’entrava?»

«Se segui la tua coscienza, fai ciò che vuoi», dissi. «Ma è stato molto più semplice. Volevo che avessi la ricchezza che ti ho dato. Volevo che fossi… felice.»

Gabrielle riflette a lungo. «Avresti voluto che ti dimenticassi?» chiesi. La mia voce era sprezzante, collerica.

Non mi rispose immediatamente. «No, certo», disse. «E se la situazione fosse stata l’inverso, anch’io non ti avrei mai dimenticato, ne sono sicura. Ma gli altri? Non m’importa nulla di loro. Non scambierò con loro una sola parola, non li rivedrò mai più.»

Annuii. Ma mi addolorava quel che stava dicendo. Mi faceva paura.

«Non riesco a superare l’idea di essere morta», mi disse. «Di essere completamente tagliata fuori da tutti gli esseri viventi. Posso sentire, posso vedere, posso percepire. Posso bere il sangue. Ma sono come qualcosa che non può essere visto e che non può influire sulla realtà.»

«Non è esatto», dissi. «E per quanto pensi che ti sosterrà percepire e vedere e toccare e assaporare, se non c’è amore? Se non c’è nessuno con te?»

La stessa espressione priva di comprensione.

«Oh, perché mi affanno a dirti tutto questo?» esclamai. «Sono con te. Siamo insieme. Non sai cosa provavo quando ero solo. Non puoi immaginarlo.»

«Io ti turbo, e non lo vorrei», disse Gabrielle. «Di’ loro ciò che ti piace. Forse riuscirai a inventare una versione accettabile. Non lo so. Se vuoi che venga con te, verrò. Farò ciò che mi chiedi. Ma ho un’altra domanda da rivolgerti.» Abbassò la voce. «Non intenderai spartire questo potere con loro!»

«No, mai.» Scossi la testa come per ribattere che era un pensiero incredibile. Guardavo i gioielli, pensavo ai doni che avevo mandato, alla casa per le bambole. Avevo mandato loro una casa per le bambole. Pensavo agli attori di Renaud, al sicuro oltre la Manica.

«Neppure con Nicolas?»

«No, Dio, no!» la guardai.

Annuì leggermente come se approvasse la risposta. E si scostò di nuovo i capelli con un gesto distratto.

«Perché neppure con Nicolas?» chiese.

Volevo che quel colloquio smettesse.

«Perché è giovane», dissi. «E ha tutta la vita davanti a sé. Non è sull’orlo della morte.» Non ero soltanto turbato: ero infelice. «Con il tempo si dimenticherà di noi…» Avrei voluto dire: «Della ‘nostra conversazione’».

«Potrebbe morire anche domani», disse lei. «Una carrozza potrebbe travolgerlo per la strada…»

«Tu vuoi che io faccia una cosa simile!» La fissai, sdegnato.

«No, non voglio. Ma chi sono, per dirti cosa devi fare o non fare? Sto solo cercando di capirti.»

I capelli lunghi le erano scivolati di nuovo sulle spalle. Esasperata, li afferrò con entrambe le mani.

All’improvviso si lasciò sfuggire un sibilo e s’irrigidì. Teneva fra le dita le ciocche e le fissava.

«Mio Dio», sussurrò. E poi, con un sussulto, lasciò i capelli e urlò.

Quel suono ebbe il potere di paralizzarmi. Lanciò una fitta di sofferenza incandescente nella mia testa. Non l’avevo mai sentita urlare. E urlò di nuovo, come se bruciasse viva. Era ricaduta contro la finestra e gridava sempre più forte mentre si guardava i capelli. Li toccò e subito ritrasse le dita come se scottassero. Si dibattè, continuando a gridare e a torcersi, come se stesse cercando di sfuggire ai propri capelli.

«Smetti!» le intimai. L’afferrai per le spalle e la scossi. Ansimava. Compresi subito la ragione. I capelli le erano ricresciuti! Erano ricresciuti mentre dormiva e adesso erano lunghi quanto prima. Ed erano ancora più folti e lucidi. Ecco che cosa non andava nel suo aspetto, ciò che avevo notato e non avevo notato, e che lei aveva appena visto.

«Basta, basta!» gridai più forte. Era scossa da fremiti così violenti che stentavo a trattenerla fra le braccia. «Sono ricresciuti, ecco tutto», insistetti. «Per te è naturale, capisci? Non è niente!»

Lei soffocava, cercava di calmarsi, si toccava i capelli e poi urlava ancora come se si fosse ustionata le dita. Cercò di allontanarsi da me, quindi si strappò i capelli in preda al terrore.

Stavolta la scrollai più forte.

«Gabrielle!» dissi. «Mi capisci? Sono ricresciuti e ricresceranno ogni volta che li taglierai. Non è nulla di orribile, per amore dell’inferno, smetti!» Pensavo che, se non avesse smesso, anch’io avrei cominciato a delirare. Tremavo quanto lei.

Smise di urlare e proruppe in ansiti sommessi. Non l’avevo mai vista così, in tutti gli anni vissuti in Alvernia. Lasciò che la guidassi alla panca vicino al focolare. La feci sedere. Si portò le mani alle tempie e cercò di riprendere fiato, mentre ondeggiava lentamente.

Mi guardai intorno per cercare un paio di forbici. Non ne avevo. Quelle d’oro erano cadute sul pavimento della cripta. Tirai fuori il coltello.

Lei singhiozzava con il viso nascosto fra le mani.

«Vuoi che li tagli ancora?» le chiesi.

Non rispose.

«Gabrielle, ascoltami.» Le staccai le mani dal viso. «Te li taglierò ancora, se vuoi. Ogni notte li taglierò e li brucerò. Ecco tutto.»

Mi fissò, immobile e silenziosa, e io non seppi che fare. Aveva il viso macchiato dal sangue delle sue lacrime, e c’era sangue sui suoi lini. Sangue dappertutto.