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«Devo tagliarli?» le chiesi di nuovo.

Sembrava che qualcuno l’avesse percossa e l’avesse fatta sanguinare. Gli occhi erano sgranati e assorti e le lacrime di sangue scorrevano sulle guance lisce. Mentre la guardavo il flusso si arrestò, le lacrime si scurirono e si asciugarono formando crosticine sulla pelle bianca.

Le asciugai premurosamente il volto con il fazzoletto di trina. Andai a rovistare fra gli indumenti che tenevo nella torre, gli indumenti confezionati per me a Parigi.

Le tolsi la giacca. Non si mosse per aiutarmi o per trattenermi, e le slacciai la camicia di lino.

Vidi i suoi seni, perfettamente bianchi, a parte il rosa pallido dei capezzoli minuscoli. Cercai di non guardarli; le feci indossare la camicia pulita e l’abbottonai in fretta. Poi le spazzolai i capelli, e li spazzolai ancora. Non volevo reciderli con il coltello, perciò ne feci una lunga treccia, e le rimisi la giacca.

Sentii che ritrovava la compostezza e la forza. Non mostrava di vergognarsi di ciò che era accaduto. E non volevo che si vergognasse. Rifletteva. Ma non parlava. Non si muoveva.

Cominciai a parlarle.

«Quand’ero piccino, mi dicevi di tutti i posti che avevi visitato. Mi mostravi immagini di Napoli e Venezia, ricordi? Quei vecchi libri? E avevi tante cose, tanti piccoli souvenir di Londra e di Pietroburgo, di tutti i posti che avevi visto.»

Non rispose.

«Voglio che andiamo in tutti quei luoghi. Voglio vederli. Voglio vederli e vivere là. Voglio andare ancora più lontano, in posti che neppure sognavo quand’ero vivo.»

Qualcosa cambiò nel suo viso. «Sapevi che sarebbero ricresciuti?» chiese in un bisbiglio.

«No. Voglio dire, sì; voglio dire, non lo pensavo. Avrei dovuto immaginarlo.»

Mi fissò a lungo, in quel silenzio apatico. «Non c’è mai niente in tutto questo che… che ti fa paura?» chiese. La sua voce era gutturale, diversa. «Non c’è mai niente che… che ti ferma?» La sua bocca era aperta e perfetta e sembrava una bocca umana.

«Non lo so», mormorai rassegnato. «Non ne vedo la ragione», dissi. Ma mi sentivo confuso. Le ripetei di tagliare i capelli ogni sera e bruciarli. Semplice.

«Sì, bruciarli», sospirò lei. «Altrimenti con il passare del tempo riempirebbero tutte le camere della torre, no? Come i capelli di Raperonzoletta nella fiaba, come l’oro che la figlia del mugnaio doveva filare dalla paglia nella favola dello gnomo cattivo.»

«Siamo noi a scrivere le nostre fiabe, amor mio», dissi. «E la lezione è questa: nulla può distruggere ciò che sei ora. Ogni ferita guarirà. Sei una dea.»

«La dea ha sete», disse lei.

Qualche ora dopo, mentre camminavamo a braccetto come due studenti tra le folle dei boulevard, era già tutto dimenticato. I nostri volti erano rosei, la nostra pelle era calda.

Ma non la lasciai per andare dal mio procuratore. E lei non andò in cerca della quiete e dell’aperta campagna, come aveva annunciato. Restammo vicini; e ogni tanto un fioco barlume della presenza ci faceva voltare.

5.

Alle tre, quando arrivammo alle scuderie, avemmo la certezza di essere pedinati dalla presenza.

Per mezz’ora o tre quarti d’ora non la sentivamo. Poi il ronzio sordo ritornava. E mi faceva impazzire.

E, sebbene ci sforzassimo di captare qualche pensiero intelligibile, riuscivamo a discernere solo la malvagità e, ogni tanto, un tumulto come lo spettacolo delle foglie secche disintegrate nel rombo del fuoco.

Gabrielle era contenta che tornassimo a casa. La cosa non la irritava. Era solo ciò che aveva detto prima… voleva la solitudine della campagna, la quiete.

Quando davanti a noi si schiuse il terreno scoperto, procedemmo così veloci che il vento era l’unico suono. Credetti di sentirla ridere, ma non ne ero sicuro. Anche lei amava la carezza del vento, lo splendore delle stelle sopra le colline buie.

Ma mi domandavo se quella notte vi erano stati momenti in cui aveva pianto tra sé a mia insaputa. C’erano stati momenti in cui era rimasta oscura e silenziosa, mentre le sue palpebre fremevano come se piangesse… ma non aveva versato neppure una lacrima.

Ero immerso in questi pensieri, credo, quando ci avvicinammo a un bosco fitto, lungo le rive d’un fiumicello poco profondo. All’improvviso la cavalla s’impennò e scartò.

Rischiai di venire gettato a terra da quel movimento inaspettato. Gabrielle si aggrappò al mio braccio destro.

Ogni volta entravo in quella piccola radura correndo sullo stretto ponte di legno. Amavo il suono degli zoccoli sull’assito, e la risalita della riva erbosa. E la cavalla conosceva il percorso. Stavolta, però, non voleva saperne.

Si girò spontaneamente, tremando e minacciando d’impennarsi di nuovo, e tornò al galoppo verso Parigi fino a quando, con tutta la forza della mia volontà, le comandai di fermarsi e tirai le redini.

Gabrielle s’era voltata a guardare il bosco fitto, la grande massa di rami scuri e ondeggianti che nascondevano il corso d’acqua. E tra l’ululato sottile del vento e il fruscio sommesso delle foglie smosse, giunse la pulsazione inequivocabile della presenza.

L’udimmo nello stesso momento, senza dubbio; strinsi più forte Gabrielle con il braccio mentre lei annuiva e si aggrappava alla mia mano.

«È più potente» mi disse in fretta. «E non è uno solo.»

«Sì», dissi esasperato. «E sta fra me e il mio covo.» Sguainai la spada sorreggendo Gabrielle con il braccio sinistro.

«Non vorrai avventarti là in mezzo!» gridò lei.

«Sì, per l’inferno», dissi io, mentre cercavo di dominare la cavalla. «Ci restano meno di due ore prima del levar del sole. Sfodera la spada anche tu!»

Tentò di girarsi per parlarmi, ma io avevo già lanciato la cavalla. E Gabrielle sfoderò la spada come le avevo detto, impugnandola con fermezza degna di un uomo.

Naturalmente, l’essere sarebbe fuggito non appena avessi raggiunto il bosco. Ne ero sicuro. Quella cosa dannata non aveva mai fatto altro che fuggire. E io ero furioso perché aveva spaventato la mia cavalla e perché spaventava Gabrielle.

Con un calcio brusco e con tutta la forza della persuasione mentale, lanciai la cavalla verso il ponte.

Strinsi l’arma. Mi piegai in avanti, riparando Gabrielle sotto di me. Alitavo rabbia come un drago: e quando gli zoccoli della cavalla colpirono le assi di legno sopra l’acqua vidi i demoni per la prima volta!

Facce bianche e braccia bianche sopra di noi, intravviste per un secondo e non di più. E dalle bocche usciva l’urlio più orrido mentre scuotevano i rami e facevano cadere su di noi una pioggia di foglie.

«Maledetto branco di arpie!» gridai mentre raggiungevamo la riva scoscesa dell’altra parte. Ma Gabrielle aveva lanciato un urlo.

Qualcosa era piombato sulla cavalla dietro di me. La cavalla sdrucciolava sulla terra bagnata, e l’essere mi stringeva la spalla e il braccio con cui cercavo di far mulinare la spada.

Brandii la lama al di sopra della testa di Gabrielle, l’avventai in basso al di là del mio braccio sinistro, e vibrai colpi furiosi contro l’essere. Lo vidi volare via, una chiazza bianca nell’oscurità: poi un altro si buttò contro di noi con le mani unghiute. La spada di Gabrielle gli fendette il braccio proteso. Vidi l’arto balzare in aria, il sangue che zampillava come da una fontana. Le urla divennero un lamento doloroso. Volevo farli a pezzi, tutti quanti. Feci girare la cavalla con tanto impeto che s’impennò e rischiò di cadere.

Ma Gabrielle le aveva afferrato la criniera e la stava guidando verso la strada aperta.

Mentre correvamo alla torre, li sentimmo urlare nell’inseguimento. E quando la cavalla stramazzò, l’abbandonammo e corremmo tenendoci per mano verso la porta.