Era un pensiero stupido. Quello era un ragazzo, come ho detto, e aveva lunghi riccioli, e camminava eretto e composto nella luce argentea. Entrò nella chiesa. Esitò per un momento. Piegò la testa, guardando in alto. Poi continuò a venire verso di noi. I suoi piedi non facevano il minimo rumore sulle pietre.
Arrivò nel chiarore delle candele accese sull’altare laterale. I suoi indumenti erano di velluto nero; un tempo dovevano essere stati molto belli, ma erano rosi e incrostati di polvere. Il viso era bianco, splendente e perfetto, e sembrava il viso di un Dio, un Cupido del Caravaggio, seducente e tuttavia etereo, con i capelli fulvi e gli occhi scuri.
Strinsi a me Gabrielle mentre lo guardavo. Non c’era nulla che mi stupisse in quell’essere inumano più del modo in cui ci fissava. Scrutò ogni dettaglio delle nostre persone. Poi tese delicatamente la mano e toccò la pietra dell’altare. Guardò l’altare, il crocifisso e i santi e guardò di nuovo noi.
Era a pochi passi di distanza, e l’aria attenta con cui ci scrutava lasciò il posto a un’espressione quasi sublime. La voce che avevo udito prima era la sua: ci chiamò di nuovo, ci invitò ad arrenderci, ci disse con gentilezza indescrivibile che dovevamo amarci l’un l’altro, lui e Gabrielle, che non chiamò per nome, e io.
C’era una sorta di ingenuità in quel suo appello.
Resistetti. Istintivamente, sentii i miei occhi diventare opachi come se si fosse levato un muro a suggellare le finestre dei miei pensieri. Tuttavia lo desideravo, desideravo abbandonarmi a lui e seguirlo, e al confronto tutti i miei desideri del passato sembravano cose da nulla. Per me era misterioso quanto lo era stato Magnus. Ma era bello, indescrivibilmente bello, e sembrava esistessero in lui una complessità e una profondità indicibile che Magnus non aveva posseduto.
L’angoscia della mia vita immortale mi attanagliava. L’essere disse: Venite a me. Venite a me perché soltanto io e i miei simili possiamo porre fine alla vostra solitudine. Sembrava attingere a un pozzo di tristezza inesprimibile, alla profondità della tristezza. Un nodo mi strinse la gola, ma non cedetti.
Noi due siamo insieme, insistetti stringendo più forte Gabrielle. E poi le chiesi: Dov’è Nicolas? Feci la domanda e decisi di non cedere a nulla di ciò che avrei potuto udire e vedere.
L’essere si umettò le labbra: un gesto molto umano. Si avvicinò in silenzio fino a quando fu a non più di due piedi da noi, e girò lo sguardo dall’uno all’altra. E parlò, con una voce molto diversa dalla voce umana.
«Magnus», disse. Era una voce discreta, carezzevole. «È finito nel fuoco come tu hai detto?»
«Non l’ho mai detto», risposi. Il suono umano della mia voce mi fece trasalire. Ma ora sapevo che alludeva ai miei pensieri di pochi attimi prima. «È vero», dissi. «È finito nel fuoco.» Perché dovevo nasconderlo?
Cercai di penetrare la sua mente. Lui lo sentì e scagliò contro di me immagini tanto strane da strapparmi un grido.
Che cosa avevo veduto per un istante? Non lo sapevo. Inferno e paradiso, oppure entrambi divenuti una cosa sola, vampiri in un paradiso dove bevevano il sangue dai fiori palpitanti che pendevano dagli alberi.
Fui assalito da un’ondata di disgusto. Era come se si fosse insinuato al pari di un demone nei miei sogni.
Ma aveva smesso. Socchiuse leggermente gli occhi e mi guardò con un vago rispetto. Il mio linguaggio lo sconcertava. Non aveva previsto la mia risposta. Non s’era aspettato… che cosa? Tanta forza?
Sì, e me lo faceva sapere in modo quasi cerimonioso.
Ricambiai la cortesia. Gli feci vedere me nella stanza della torre, con Magnus; rievocai le parole di Magnus prima che si buttasse nel fuoco. Lasciai che scoprisse tutto.
Annuì; e quando gli riferii le parole di Magnus, il suo viso cambiò leggermente, come se la fronte si fosse spianata o come se la pelle si fosse tesa. Non mi rivelò in risposta nulla di ciò che lo riguardava, comunque.
Al contrario, con mio grande stupore, distolse lo sguardo da noi e lo rivolse all’altar maggiore. Ci passò accanto, ci voltò le spalle come se non ci temesse e ci avesse dimenticati per un momento.
Si avviò verso la grande navata, lentamente. Ma non sembrava camminare come un umano. Si spostava, piuttosto, da un’ombra all’altra, così che sembrava sparire e riapparire. Non era mai visibile nella luce. E le dozzine di anime presenti nella chiesa dovevano solo guardarlo perché sparisse istantaneamente.
Mi meravigliai della sua destrezza, perché d’altro non si trattava. Curioso di vedere come faceva, lo seguii verso il coro. Gabrielle mi imitò senza fare rumore.
Scoprimmo che era più semplice di quanto avessimo immaginato. Tuttavia l’essere si stupì, chiaramente, quando ci vide al suo fianco.
E in quell’attimo di stupore mi lasciò intravvedere la sua grande debolezza, l’orgoglio. Era umiliato perché l’avevamo raggiunto muovendoci con tanta leggerezza e riuscendo nel contempo a nascondere i nostri pensieri.
Ma il peggio doveva ancora venire. Quando comprese che me n’ero accorto, s’infuriò doppiamente. Da lui irradiò un calore divorante che non era calore.
Gabrielle si lasciò sfuggire un mormorio di sdegno. Per un secondo lo fissò, e ci fu un barlume di comunicazione tra loro che mi escludeva. L’essere sembrava perplesso.
Ma era in preda a una battaglia ancora più grande che io cercavo di comprendere. Guardava i fedeli che gli stavano intorno, e l’altare e gli emblemi dell’Onnipotente e della Vergine Maria, dovunque si voltasse. Era davvero un dio uscito da un quadro del Caravaggio, e la luce giocava sul candore marmoreo del viso innocente.
Poi mi passò il braccio intorno alla vita, sotto il mantello. Il tocco era così strano e dolce e avvincente, e la bellezza del suo volto era così incantevole che non mi mossi. Passò l’altro braccio intorno alla vita di Gabrielle: e nel vederli insieme, angelo e angelo, mi distrassi.
Dovete venire, disse.
«Perché? Dove?» chiese Gabrielle. Io sentivo una pressione immensa. L’essere cercava di farmi muovere contro la mia volontà, ma non poteva. Ero come radicato al pavimento. Vidi la faccia di Gabrielle indurirsi mentre lo guardava. Era di nuovo sbalordito. Era esasperato e non poteva nascondercelo.
Dunque aveva sottovalutato la nostra forza fìsica, oltre alla nostra forza mentale. Interessante.
«Dovete venire, ora», disse, concentrando su di me la forza della sua volontà: ma io la vedevo troppo chiaramente per lasciarmi ingannare. «Venite e i miei seguaci non vi faranno alcun male.»
«Tu menti», dissi. «Hai mandato via i tuoi seguaci e vuoi che usciamo prima del loro ritorno perché non debbono vederti uscire dalla chiesa. Non vuoi che sappiano che ci sei entrato!»
Gabrielle proruppe in un’altra risatina sprezzante.
Appoggiai la mano sul petto dell’essere e cercai di spostarlo. Forse era forte quanto Magnus, ma rifiutavo di avere paura. «Perché non vuoi che lo vedano?» sussurrai scrutandolo.
Il cambiamento che si operò in lui fu così sconvolgente e terribile che mi sorpresi a trattenere il respiro. Il volto angelico si contrasse, gli occhi si sgranarono, la bocca si piegò in una smorfia di costernazione. Tutto il corpo si deformò, come se si sforzasse di non digrignare i denti e di non serrare i pugni.
Gabrielle indietreggiò. Io risi. Non ne avevo l’intenzione, ma non seppi trattenermi. Era orribile ma era anche buffo.
Con subitaneità sorprendente l’illusione spaventosa, se era un’illusione, svanì, e l’essere ridivenne se stesso. Tornò persino l’espressione sublime. Mi disse, in un torrente di pensieri, che ero infinitamente più forte di quanto avesse previsto. Ma gli altri si sarebbero spaventati se l’avessero visto uscire dalla chiesa e perciò dovevamo andare subito. «Altre menzogne», bisbigliò Gabrielle.