«Questo è il luogo delle streghe! Lestat, mi senti? Questo è il luogo delle streghe!»
Lieve trepidare di tutti i nostri vecchi segreti, l’amore, le cose che avevamo conosciuto e provato. La danza nel luogo delle streghe. Puoi rinnegarlo? Puoi rinnegare tutto ciò che è avvenuto tra noi?
Mandalo lontano dalla Francia. Mandalo nel Nuovo Mondo. E poi? Per tutta la vita sarà uno di quei mortali abbastanza interessanti ma piuttosto noiosi che hanno visto gli spiriti, ne parlano incessantemente e nessuno gli crede. Una follia sempre più profonda. E alla fine sarà un pazzo ridicolo, perseguitato dai prepotenti, che suona il violino per la folla sulle vie di Port-au-Prince?
«Potrai fare il burattinaio con lui», aveva detto Gabrielle. È questo, ciò che ero? Nessuno crederà alle sue storie pazzesche.
Ma lui conosce il luogo dove dormiamo, madre. Conosce i nostri nomi, il nome della nostra razza… sa troppe cose di noi. E non se ne andrà docilmente in un altro paese. E loro potrebbero seguirlo; loro non lo lasceranno vivo, ormai.
Dove sono loro?
Salii la scala nel turbine delle sue grida echeggiami, guardai l’aperta campagna attraverso la finestrella sbarrata. Torneranno. Devono tornare. Prima ero solo, poi ho avuto con me Gabrielle, adesso ho loro.
Ma qual era il punto cruciale? Il fatto che lui lo voleva, e aveva urlato e urlato che gli avevo negato il potere?
O forse adesso io avevo il pretesto necessario per portarlo a me come avevo sempre desiderato fin dal primo momento? Il mio Nicolas. Il mio amore. L’eternità attende, con tutti i piaceri grandi e splendidi della morte.
Continuai a salire le scale verso di lui, e la sete cantava dentro di me. Al diavolo le sue grida. La sete cantava e io ero uno strumento di quel canto.
E le grida erano divenute inarticolate… l’essenza pura delle maledizioni, la sorda punteggiatura dell’angoscia che udivo senza bisogno di suoni. Qualcosa di divinamente carnale nelle sillabe spezzate che gli uscivano dalle labbra, come il lento scorrere del sangue nel suo cuore.
Alzai la chiave, l’infilai nella serratura, e lui tacque. I suoi pensieri arretrarono e rientrarono in lui come se l’oceano venisse risucchiato nelle pire minuscole e misteriose di una conchiglia.
Cercai di vederlo nelle ombre della stanza, senza vedere il resto… l’amore per lui, i mesi strazianti di nostalgia, il bisogno umano e indistruttibile, il desiderio. Cercai di vedere il mortale che non sapeva cosa stava dicendo mentre mi guardava cupamente.
«Tu e i tuoi discorsi sul bene…» La voce bassa e vibrante, gli occhi che scintillavano. «I tuoi discorsi sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto, e sulla morte, oh, sì, la morte, l’orrore, la tragedia…»
Parole. Portate dalla corrente gonfia dell’odio, come fiori aperti sulla corrente, e con petali che si schiudevano e si distaccavano…
«… e l’hai spartito con lei: il figlio del signore fa alla moglie del signore il grande dono, il Dono Tenebroso. Coloro che vivono nel castello sono partecipi del Dono Tenebroso… non venivano mai trascinati al luogo delle streghe, dove ci sono pozze di grasso umano nel terreno ai piedi dei pali bruciati: no, uccidi la vecchia che non ci vede più a cucire, il ragazzo che non può arare i campi. E che cosa dà a noi, il figlio del signore, l’Uccisore di Lupi, colui che urlava nel luogo delle streghe? Le monete del reame: e questo ci deve bastare!»
Tremava. La camicia era intrisa di sudore. La pelle tesa luccicava tra i pizzi strappati. Era una visione tentatrice, il torace snello e muscoloso che gli scultori amano rappresentare, i capezzoli rosei sulla pelle scura.
«Questo potere…» Sibilava come se per tutto il giorno avesse ripetuto le parole con la stessa intensità e come se la mia presenza non avesse importanza. «Questo potere che rendeva prive di significato tutte le menzogne, il Potere Tenebroso che dominava ogni cosa, la verità che annullava…,»
No. Nessuna verità.
Le bottiglie di vino erano vuote, il cibo era stato divorato. Le sue braccia magre erano indurite e tese per la lotta… ma quale lotta? I capelli bruni s’erano sciolti dal nastro, gli occhi erano enormi, vitrei.
Ma all’improvviso si spinse contro il muro come se volesse attraversarlo per allontanarsi da me… il vago ricordo di quando i vampiri avevano bevuto il suo sangue, la paralisi, l’estasi… eppure fu attirato immediatamente in avanti, e barcollò, e tese le mani per sostenersi aggrappandosi a qualcosa che non c’era.
Ma la sua voce taceva.
Qualcosa si spezzava nel suo viso.
«Come hai potuto negarmelo?» sussurrò. I pensieri dell’antica magia, la leggenda luminosa, un grande strato misterioso in cui prosperavano tutte le cose d’ombra, l’ebbrezza della conoscenza proibita in cui tutte le cose naturali perdevano d’importanza. Non c’era più nessun miracolo nelle foglie che d’autunno cadevano dagli alberi, nel sole splendente sul frutteto.
No.
L’odore saliva da lui come incenso, come il calore e il fumo delle candele delle chiese. Il cuore batteva sotto la pelle del petto nudo. Il ventre lucido di sudore, e il sudore che macchiava la cintura di cuoio. Sangue saturo di sale. Stentavo a respirare.
«E noi respiriamo. Respiriamo e sentiamo i sapori e gli odori e le sensazioni e la sete.»
«Hai frainteso tutto.» Era Lestat, quello che parlava? Sembrava un altro demone, un essere ripugnante con una voce che era l’imitazione di una voce umana. «Hai frainteso tutto ciò che hai visto e udito.»
«Io avrei spartito con te tutto ciò che possedevo!» La rabbia ingigantiva di nuovo. Tese le mani. «Sei tu, quello che non ha mai capito», sussurrò.
«Prendi la tua vita e vattene. Fuggi!»
«Non vedi che è la conferma di tutto? Il fatto che esista è la conferma… il male puro, il male sublime!» Un’espressione di trionfo nei suoi occhi. Tese la mano all’improvviso e la chiuse sul mio volto.
«Non provocarmi!» dissi. Lo colpii così forte che cadde all’indietro, umiliato e silenzioso. «Quando mi è stato offerto, ho detto no. Ti ripeto che ho detto no. Ho detto no con il mio ultimo respiro.»
«Sei sempre stato uno sciocco», insistette lui. «Te lo dicevo.» Ma stava crollando. Tremava, e la rabbia si mutava in disperazione. Alzò di nuovo le braccia e si fermò. «Credevi cose che non avevano importanza», disse quasi gentilmente. «C’era qualcosa che non riuscivi a capire. È possibile che tu non sappia cosa possiedi ora?» Il velo che gli offuscava gli occhi si sciolse in lacrime.
Il suo viso si contrasse. Irradiava tacite parole d’amore.
E io fui assalito da uno spaventoso senso di vergogna. Mi sentii pervaso dal potere che avevo su di lui, e dalla conoscenza del potere, e il mio amore per lui riscaldava quel potere, lo spingeva verso un imbarazzo bruciante che all’improvviso si trasformava in qualcosa d’altro.
Eravamo di nuovo tra le quinte del teatro; eravamo nel villaggio dell’Alvernia, nella piccola locanda. Non sentivo soltanto l’odore del suo sangue, ma anche il terrore improvviso. Era arretrato di un passo. E quel movimento fece divampare la fiamma dentro di me, come la visione del suo viso straziato.
Divenne più piccolo e più fragile. Eppure non era mai apparso più forte, più attraente di quel momento.
Ogni espressione sparì dal suo volto quando mi avvicinai. I suoi occhi erano prodigiosamente limpidi. E la sua mente si schiuse come s’era schiusa la mente di Gabrielle, e per un tempo infinitesimale fummo insieme nella soffitta, a parlare e parlare mentre la luna brillava sui tetti coperti di neve, o a passeggiare per le vie di Parigi o a passarci il vino, con le teste chine sotto il primo scroscio di pioggia invernale, quando davanti a noi si estendeva l’eternità per crescere e invecchiare, e tanta gioia persino nell’infelicità, persino l’infelicità dell’eternità vera, del mistero mortale. Ma il momento svanì nell’espressione del suo volto.