«Vieni a me, Nicki», mormorai. Alzai entrambe le mani per chiamarlo. «Se lo vuoi, devi venire…»
Vidi un uccello alzarsi da una grotta sopra il mare aperto. E c’era qualcosa di terrificante nell’uccello e nelle onde infinite su cui volava. Saliva sempre più in alto, e il cielo diventava argenteo, e a poco a poco l’argento svaniva e il cielo diventava scuro. L’oscurità della sera: non era temibile. L’oscurità benedetta. Ma scendeva gradualmente e inesorabilmente soltanto su quella piccola creatura che strideva nel vento sopra il grande deserto del mondo. Grotte vuote, sabbie vuote, mare vuoto.
Tutto ciò che avevo amato guardare o ascoltare o toccare con le mani era scomparso o non era mai esistito: e l’uccello, che volteggiava e planava, continuava a volare in alto, sopra di me o forse sopra nessuno, e teneva l’intero paesaggio senza storia e senza significato racchiuso in un piccolo, piatto occhio nero.
Urlai, ma senza un suono. Sentivo la bocca piena di sangue e ogni sorso discendeva nella gola e nella sete insondabile. E volevo dire: sì, ora capisco, capisco com’è terribile e insopportabile questa oscurità. Non lo sapevo. Non potevo saperlo. L’uccello che volava nell’oscurità sopra la riva deserta, il mare infinito. Buon Dio, basta. È peggio dell’orrore nella locanda, peggio delle grida impotenti della cavalla abbattuta dai lupi nella neve. Ma il sangue era sangue, dopotutto, e il cuore, il cuore ricco che era tutti i cuori, era lì, impaziente, contro le mie labbra.
Ecco, amore mio, ecco il momento. Posso trangugiare la vita che batte nel tuo cuore e mandarti nell’oblio in cui nulla può essere compreso o perdonato, oppure posso portarti con me.
Lo respinsi. Lo sostenni come un essere schiacciato. Ma la visione non svanì.
Le sue braccia mi scivolarono intorno al collo. Il volto era sudato, gli occhi roteavano. Poi protese la lingua e lambì con forza lo squarcio che avevo aperto per lui nella mia gola. Sì, avidamente.
Ma basta, basta con la visione. Basta con il volo e il panorama incolore, lo strido che non significava nulla nell’urlio del vento. La sofferenza non è nulla in confronto a questa tenebra. Non voglio… non voglio…
Ma si dissolveva. Si dissolveva lentamente.
E poi finì. Il velo di silenzio era disceso, com’era avvenuto con lei. Silenzio. Era separato da sé. E io lo tenevo lontano, e quasi cadeva, con le mani contro la bocca e il sangue che gli scorreva in rivoletti dal mento. La bocca era aperta e ne usciva un suono arido, arido nonostante il sangue.
E al di là di lui, al di là della visione ricordata del mare metallico e dell’uccello solitario che ne era l’unico testimone… la vidi sulla soglia, e i suoi capelli erano un velo d’oro da madonna sulle spalle. E disse, con un’espressione tristissima: «Disastro, figlio mio».
A mezzanotte apparve evidente che Nicolas non avrebbe parlato né risposto ad alcuna voce e non si sarebbe mosso di propria volontà. Restava immobile privo di espressione, nei posti dove veniva portato. Se la morte lo faceva soffrire, non ne dava segno. Se la nuova vista lo rallegrava, lo teneva per sé. Non lo smuoveva neppure la sete.
E fu Gabrielle che, dopo averlo studiato in silenzio, si occupò di lui e lo pulì e gli mise altri indumenti. Scelse una giacca di lana nera, una delle poche giacche scure che possedevo. E biancheria modesta che lo faceva sembrare stranamente simile a un giovane chierico, un po’ troppo serio, un po’ ingenuo.
E nel silenzio della cripta, mentre li guardavo, sentii senza ombra di dubbio che ognuno di loro poteva ascoltare i pensieri dell’altro. Senza una parola, lei lo guidò alla panca accanto al fuoco.
Finalmente disse: «Ora dovrebbe andare a caccia». E quando lo fissò Nicolas si alzò senza guardarla, come se fosse tirato da un filo.
Li guardai allontanarsi. Ero stordito. Udii i loro passi sulla scala. Poi salii dietro di loro, furtivamente, mi aggrappai alle sbarre della porta e li guardai muoversi attraverso il campo, due spiriti felini.
Il vuoto della notte era un freddo indissolubùe che discendeva su di me e mi avvolgeva. Neppure il fuoco del camino valse a riscaldarmi, quando tornai.
Il vuoto. E la quiete che avevo creduto di desiderare… essere solo dopo la macabra lotta a Parigi. La quiete e la certezza che mi rodeva le viscere come un animale affamato… adesso non sopportavo più di vederlo.
5.
Appena aprii gli occhi, la notte seguente, seppi che cosa dovevo fare. Non aveva importanza che non sopportassi di vederlo. Lo avevo reso così, e in un modo o nell’altro dovevo strapparlo a quello stato stuporoso.
La caccia non l’aveva cambiato, anche se apparentemente aveva bevuto e ucciso con abilità. Adesso toccava a me proteggerlo dalla ripugnanza che provavo, e andare a Parigi a prendere la sola cosa che poteva farlo reagire.
Quand’era vivo, aveva amato soltanto il violino, forse ora quello l’avrebbe svegliato. Glielo avrei messo tra le mani e lui avrebbe voluto suonarlo ancora, suonarlo con la sua nuova abilità, e tutto sarebbe cambiato e il gelo nel mio cuore si sarebbe dissolto.
Appena Gabrielle si svegliò, le dissi che cosa avevo intenzione di fare.
«E gli altri?» chiese lei. «Non puoi andare a Parigi da solo.»
«Sì che posso. Tu devi restare qui con lui. Se i mostriciattoli tornassero, forse riuscirebbero ad attirarlo all’aperto, così com’è ora. E voglio sapere cosa succede sotto il Cimitero degli Innocenti. Voglio sapere se c’è una vera tregua.»
«Non mi piace l’idea che tu vada», disse Gabrielle scuotendo la testa. «Ti assicuro; se non credessi che dovremmo parlare di nuovo al capo perché abbiamo molte cose da imparare da lui e dalla vecchia, sarei dell’idea di lasciare Parigi stanotte stessa.»
«E che cosa possono insegnarci?» chiesi freddamente. «Che è il sole a girare intorno alla terra? Che la terra è piatta?» Ma l’amarezza delle mie parole mi ispirava vergogna.
Una delle cose che potevano dirmi era perché i vampiri che io avevo creato riuscivano a udire l’uno i pensieri dell’altro, mentre io non potevo. Ma ero troppo depresso per la ripugnanza ispiratami da Nicki, per pensare a queste cose.
Mi limitai a guardarla, e pensai che era stato magnifico vedere l’Opera Tenebrosa attuare in lei la sua magia, restituirle la bellezza della gioventù, farla ridiventare la dea che era stata per me quand’ero bambino. Vedere Nicki che cambiava era stato vederlo morire.
Forse, senza leggere le parole nella mia anima, lei lo comprese fin troppo chiaramente.
Ci abbracciammo. «Sii prudente», mi disse.
Sarei dovuto andare subito all’appartamento per prendere il violino. E poi c’era ancora il mio povero Roget. Tante menzogne da raccontare. E l’idea di lasciare Parigi… mi sembrava la cosa più sensata, via via che ci pensavo.
Ma per ore feci soltanto ciò che volevo. Andai a caccia nelle Tuileries e nei boulevard, fìngendo che non esistesse una congrega sotto il Cimitero degli Innocenti, che Nicki fosse ancora vivo e al sicuro e che Parigi fosse tutta mia.
Ma stavo in ascolto a ogni momento. Pensavo alla vecchia regina. E li sentii quando meno me li aspettavo, nel Boulevard du Temple, quando mi avvicinai al teatro di Renaud.
Era strano che fossero presenti nei luoghi della luce, come li chiamavano. Ma dopo pochi secondi vidi che alcuni di loro erano nascosti dietro il teatro. E questa volta non ci fu malvagità, ma solo un’eccitazione disperata quando si accorsero che ero vicino.
Poi vidi la faccia bianca della vampira, la donna graziosa dagli occhi scuri e i capelli da strega. Era nel vicolo, accanto all’entrata degli artisti. Corse verso di me per chiamarmi.