La donna dagli occhi scuri si avvicinò, mi premette le labbra sul dorso della mano.
«Non lo dimenticheremo», disse. «Mi chiamo Eleni, e il ragazzo è Laurent, e l’uomo è Félix, la donna che è con lui è Eugènie. Se Armand agirà contro di te, agirà contro di noi.»
«Spero che possiate prosperare», dissi. Stranamente, lo pensavo davvero. Mi chiedevo se qualcuno di loro, con tutte le Leggi Tenebrose e i rituali, aveva desiderato veramente l’incubo comune a noi tutti. Vi erano stati trascinati, come me. E ormai eravamo tutti Figli delle Tenebre.
«Ma siate prudenti», li avvertii. «Non portate mai le vittime qui, e non uccidetele nei dintorni. Siate prudenti e proteggete il vostro nascondiglio.»
Erano le tre quando attraversai il ponte dell’Ile St.-Louis. Avevo sprecato molto tempo e ora dovevo trovare il violino.
Ma, quando mi avvicinai alla casa di Nicki sul Lungosenna, vidi che qualcosa non andava. Le finestre erano vuote. I tendaggi erano stati tolti, ma l’appartamento era pieno di luce come se vi fossero accese centinaia di candele. Stranissimo. Non era possibile che Roget avesse già preso possesso dell’appartamento. Non era passato abbastanza tempo per presumere che Nicki avesse fatto una brutta fine.
Salii in fretta sul tetto e ridiscesi il muro fino alla finestra sul cortile, e vidi che i tendaggi erano stati tolti anche lì.
E c’erano candele accese in tutti i candelieri e in tutte le appliques. Alcune erano fissate con la cera sul pianoforte e sulla scrivania. La stanza era nel più completo disordine.
Tutti i libri erano stati tolti dagli scaffali. E alcuni erano in pezzi, le pagine strappate. Persino i fogli di musica erano stati gettati a uno a uno sul tappeto, e i quadri erano appoggiali ai tavoli con altri piccoli oggetti… monete, chiavi.
Forse i demoni avevano devastato l’appartamento quando avevano portato via Nicki. Ma chi aveva acceso tutte quelle candele? Non aveva senso.
Mi fermai in ascolto. Nell’appartamento non c’era nessuno, o così sembrava. Ma poi udii… no, non pensieri, bensì suoni minuti. Socchiusi gli occhi per un momento, concentrandomi, e mi accorsi che sentivo le pagine che venivano girate e qualcosa che veniva lasciato cadere. Altre pagine voltate, vecchie pagine di pergamena rigida. Poi, di nuovo il libro che cadeva.
Aprii la finestra, cercando di non fare rumore. I suoni continuarono; ma non c’erano odori umani, non c’erano palpiti di pensiero.
Eppure c’era un odore, più forte del tabacco vecchio e della cera delle candele. L’odore che i vampiri portavano con loro, l’odore della terra del cimitero.
Altre candele nel corridoio. Candele nella camera da letto e lo stesso disordine, libri ammucchiati con noncuranza, lenzuola gualcite, i quadri uno sopra l’altro. Gli armadi svuotati, i cassetti sul pavimento.
E il violino non c’era. Questo lo notai.
I suoni minuti giungevano da un’altra stanza, le pagine venivano girate in fretta.
Chiunque fosse (e naturalmente sapevo chi doveva essere), non si curava della mia presenza. Non s’era interrotto neppure per tirare il fiato.
Avanzai nel corridoio e mi fermai sulla soglia della biblioteca. Lo vidi mentre continuava il suo compito.
Era Armand, naturalmente. Tuttavia non ero preparato a quella scena.
La cera delle candele colava sul busto marmoreo di Cesare, sulle nazioni colorate del mappamondo. E i libri erano a montagne sul tappeto, eccettuati quelli sull’ultimo scaffale nell’angolo dove stava ritto, ancora vestito dei vecchi stracci e con i capelli pieni di polvere. Mi ignorava mentre passava la mano su una pagina dopo l’altra, gli occhi intenti sulle parole, le labbra semiaperte, e l’espressione simile a quella di un insetto impegnato a rodere una foglia.
Era assolutamente orribile. Risucchiava tutto dei libri.
Alla fine ne lasciò cadere uno, ne prese un altro, l’aprì e cominciò a divorarlo muovendo le dita sulle frasi con velocità soprannaturale.
E mi resi conto che aveva esaminato nello stesso modo tutto ciò che c’era nell’appartamento, persino le lenzuola e le cortine del letto, il contenuto delle credenze e dei cassetti, i quadri che aveva staccato dai ganci. Ma dai libri attingeva una conoscenza concentrata. Sul pavimento c’era di tutto, dal De bello gallico di Cesare ai moderni romanzi inglesi.
Ma non erano i suoi modi la cosa più orribile. Era il caos che lasciava dietro di sé, l’assoluto disprezzo per tutto ciò che aveva usato.
L’assoluto disprezzo per me.
Finì l’ultimo libro, o ne interruppe la lettura, e andò a prendere i vecchi giornali ammonticchiati su un ripiano più basso.
Uscii a ritroso dalla stanza, fissando la sua figura lurida. I capelli fulvi scintillavano nonostante la polvere, gli occhi ardevano come due lampade.
Sembrava grottesco, fra tutte le candele e i colori dell’appartamento, quello spettro degli inferi; tuttavia, la sua bellezza era dominante. Non aveva avuto bisogno delle ombre di Notre-Dame o della luce delle torce nella cripta per questo. E in quella luce viva c’era in lui un ardore che prima non avevo visto.
Fui sopraffatto dalla confusione. Era pericoloso e avvincente. Avrei continuato a guardarlo per sempre, ma un istinto fortissimo diceva: Vattene. Lascia a lui questo posto, se lo vuole. Ormai, che cosa importa?
Il violino. Cercai disperatamente di pensare al violino, di non guardare più il movimento delle sue mani sulle parole che aveva davanti, la concentrazione implacabile dei suoi occhi.
Gli voltai le spalle e andai in salotto. Mi tremavano le mani. Non sopportavo il pensiero che fosse lì. Cercai dovunque e non trovai quel maledetto violino. Cosa poteva averne fatto Nicki? Non riuscivo a immaginarlo.
Le pagine che giravano, il fruscio della carta. Il suono sommesso di un giornale che cadeva sul pavimento.
Dovevo tornare subito alla torre.
Mi mossi per passare in fretta davanti alla biblioteca, quando all’improvviso la sua voce silenziosa mi arrestò. Fu come se una mano mi afferrasse alla gola. Mi voltai e vidi che mi fissava.
Dunque li ami, i tuoi figli silenziosi? Ti amano? Era ciò che chiedeva: il significato si districava da un’eco infinita.
Sentii il sangue affluirmi al volto. Il calore dilagò su di me come una maschera mentre lo guardavo.
Tutti i libri erano sul pavimento. Era un fantasma tra le rovine, un emissario del diavolo in cui credeva. Tuttavia il suo volto era così tenero, così giovane.
L’Opera Tenebrosa non porta mai amore, vedi: porta solo il silenzio. La voce priva di suono sembrava più chiara: l’eco s’era dissipata. Dicevamo che era il volere di Satana, che il maestro e il novizio non dovevano cercare conforto l’uno nell’altro. Era Satana, colui che doveva essere servito, dopo tutto.
Ogni parola penetrava dentro di me ed era accolta da una curiosità vulnerabile e umiliante. Ma rifiutavo di permettere che lo vedesse. Dissi rabbiosamente.
«Che cosa vuoi da me?»
Parlare era come infrangere qualcosa. Avevo più paura di lui in quel momento di quanta ne avessi avuta nelle battaglie precedenti; e io odio chi mi ispira paura, chi conosce cose che ho bisogno di sapere, chi ha questo potere su di me.
«È come non saper leggere, vero?» disse ad alta voce. «E il tuo creatore, il fuorilegge Magnus, si curava forse della tua ignoranza? Non ti ha detto neppure le cose più semplici, vero?»
La sua espressione rimaneva immutata mentre parlava.
«Non è sempre stato così? C’è mai stato qualcuno che si sia preoccupato d’insegnarti qualcosa?»
«Stai attingendo queste cose dalla mia mente…» dissi. Ero sgomento. Vedevo il convento dove avevo studiato da ragazzo, le file dei libri che non sapevo leggere, Gabrielle china sui suoi volumi, con le spalle rivolte verso tutti noi. «Basta!» sussurrai.