«Madre, ho cercato di voltare le spalle a tutto questo. Non m’interessa com’è incominciato. Mi chiedo se lui stesso lo sa.»
«Capisco, Lestat», disse Gabrielle a voce bassa. «Credimi, capisco. Tutto sommato, quegli esseri mi interessano meno degli alberi della foresta e delle stelle lassù. Preferirei studiare le correnti del vento, le nervature delle foglie che cadono…»
«Esattamente.»
«Ma non essere precipitoso. L’importante è che noi tre restiamo insieme. Dobbiamo andare insieme in città e preparare la partenza, a poco a poco. E, insieme, dobbiamo mettere in pratica il tuo piano per scuotere Nicolas con il violino.»
Volevo parlare di Nicki. Volevo chiederle cosa c’era dietro il suo silenzio. Che cosa aveva intuito? Ma le parole mi mancarono nella gola. Pensavo come sempre al suo giudizio di quei primi momenti. «Disastro, figlio mio.»
Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi ricondusse verso la torre. «Non ho bisogno di leggerti nella mente per sapere cos’hai nel cuore», disse. «Portiamolo a Parigi. Cerchiamo di trovare lo Stradivari.» Si alzò in punta di piedi per baciarmi. «Prima che tutto ciò accadesse, eravamo sulla Strada del Diavolo, insieme. Presto vi ritorneremo.»
Condurre Nicolas a Parigi fu facile come guidarlo in ogni altra cosa. Montò a cavallo come un fantasma e procedette al nostro fianco. Solo i capelli scuri e il mantello sembravano animati, agitati com’erano dal vento.
Quando ci nutrimmo nell’Ile de la Cité, mi accorsi che non potevo guardarlo mentre cacciava e uccideva.
Non mi dava speranza vederlo fare queste semplici cose con il torpore di un sonnambulo. Dimostrava semplicemente che avrebbe potuto continuare così per sempre, come un complice silenzioso, poco più di un cadavere risuscitato.
Tuttavia provai una sensazione inaspettata, mentre procedevamo insieme nei vicoli. Non eravamo più due, bensì tre. Una congrega. E se fossi riuscito a scuoterlo…
Ma prima veniva la visita a Roget. Dovevo affrontare da solo il procuratore. Li lasciai ad aspettare a pochi portoni dalla sua casa; e, mentre battevo il picchiotto, mi preparai all’interpretazione più incredibile della mia carriera teatrale.
Bene, ero destinato a imparare molto presto una lezione importante sui mortali e la loro disponibilità a lasciarsi convincere che il mondo è un posto sicuro. Roget fu felicissimo di vedermi; era molto sollevato perché ero «vivo e in buona salute» e volevo ancora servirmi di lui; e cominciò ad annuire in segno di accettazione prima ancora che avessi incominciato con le mie spiegazioni assurde.
(E non ho mai dimenticato questa lezione sulla tranquillità dei mortali. Anche se un fantasma fa a pezzi la casa e lancia in giro le pentole, versa l’acqua sui cuscini, fa suonare gli orologi a tutte le ore, i mortali sono disposti ad accettare in pratica ogni «spiegazione naturale» che venga data, per quanto assurda, piuttosto di quella sovrannaturale più ovvia.)
E quasi subito apparve evidente che credeva che io e Gabrielle fossimo fuggiti dall’appartamento passando dalla porta che metteva in comunicazione la camera da letto con l’alloggio della servitù: era una comoda possibilità che prima non avevo considerato. Perciò mi limitai a mormorare, a proposito del candeliere contorto, che avevo perso la testa per il dolore nel vedere mia madre. E questo Roget lo capiva benissimo.
In quanto alla ragione della nostra fuga, ecco, Gabrielle aveva insistito per allontanarsi da tutti e recarsi in un convento, dove si trovava ancora adesso.
«Ah, Monsieur, un miglioramento miracoloso!» dissi. «Se poteste vederla! Ma non ha importanza. Andremo subito in Italia con Nicolas de Lenfent, e abbiamo bisogno di contanti, lettere di credito, una carrozza da viaggio molto grande, e un buon tiro a sei. Provvedete voi. Fate preparare tutto per venerdì sera. E scrivete a mio padre, ditegli che accompagno mia madre in Italia. Immagino che mio padre stia bene, no?»
«Sì. Sì, certo. Gli ho dato solo le notizie più rassicuranti…»
«Avete fatto benissimo: sapevo di potermi fidare di voi. Cosa farei senza la vostra collaborazione? E questi rubini… potete ricavarne una somma in contanti, immediatamente? E ho qui alcune monete spagnole da vendere: credo che siano antiche.»
Roget scribacchiava come un matto. Dubbi e sospetti si dissolvevano nel calore del mio sorriso. Era così felice di avere qualcosa da fare!
«Tenete vuota la mia proprietà nel Boulevard du Temple», dissi. «Naturalmente, gestirete voi tutto.»
La mia proprietà nel Boulevard du Temple, il nascondiglio di una banda di vampiri laceri e disperati, a meno che Armand li avesse già trovati e bruciati come un mucchio di costumi vecchi. Presto avrei trovato la risposta a quella domanda.
Scesi le scale fischiettando tra me in modo molto umano: ero felice di aver sbrigato quel compito odioso. Poi mi accorsi che Nicki e Gabrielle non c’erano.
Mi fermai e mi guardai intorno.
Vidi Gabrielle nel momento in cui sentii la sua voce: era una figura efebica che usciva da un vicolo come se si fosse materializzata in quel momento.
«Lestat, se n’è andato… è sparito», disse.
Non riuscii a rispondere. Dissi una frase molto stupida, qualcosa come «Cosa? Sparito?» Ma i miei pensieri soffocavano le parole nella mia mente. Se fino a quel momento avevo dubitato di amarlo, avevo mentito a me stesso.
«Gli ho voltato le spalle un momento, ed è bastato», disse lei. Era in parte addolorata, in parte in collera.
«Voi due vi udite…»
«No. Niente. È stato troppo svelto.»
«Sì, se si è mosso da solo, se non è stato catturato…»
«Avrei sentito la sua paura se l’avesse preso Armand», insistette Gabrielle.
«Ma prova paura? Prova qualcosa?» Ero atterrito ed esasperato. Nicki era sparito in un’oscurità che si estendeva intorno a noi come una ruota gigantesca intorno al suo asse. Strinsi il pugno, e dovetti compiere qualche piccolo gesto inconsulto dovuto al panico.
«Ascoltami», disse Gabrielle. «Ci sono due sole cose che gli turbinano nella mente…»
«Dimmi!»
«Una è la pira sotto il Cimitero degli Innocenti, dove volevano bruciarlo. E l’altra è un piccolo teatro… le luci della ribalta, il palcoscenico.»
«Il teatro di Renaud», dissi.
Io e lei, insieme, eravamo due arcangeli. Non impiegammo neppure un quarto d’ora per raggiungere il boulevard chiassoso e avviarci tra la folla, passare davanti alla facciata del teatro ed entrare dall’ingresso degli artisti.
Le assi erano state strappate, le serrature rotte. Ma non sentii Eleni e gli altri mentre entravamo nel corridoio che girava dietro il palcoscenico. Non c’era nessuno.
Forse Armand s’era riportato a casa i suoi figli, alla fine: ed era colpa mia perché non avevo voluto ospitarli.
Non c’era altro che la giungla delle scene, i grandi fondali dipinti, giorno e notte, colline e valli, e i camerini aperti, dove qua e là uno specchio brillava nella luce che filtrava dalla porta lasciata aperta.
Poi Gabrielle mi strinse il braccio con la mano. Indicò le quinte. Compresi dalla sua espressione che non si trattava degli altri. Lì c’era Nicki.
Andai sul lato del palcoscenico. Il sipario di velluto era sollevato e potevo vedere la figura nell’orchestra. Era seduto al solito posto, con le mani sulle ginocchia. Stava rivolto verso di me ma non mi aveva notato. Guardava nel vuoto, come sempre.
E ricordai le strane parole che mi aveva detto Gabrielle la notte dopo che l’avevo creata: non riusciva a superare la sensazione che era morta e non poteva fare nulla nel mondo dei mortali.
Nicolas appariva privo di vita, e quasi trasparente. Era lo spettro inespressivo nel quale ci si aspetta di imbattersi nell’ombra di una casa infestata, quasi ammuffito come i mobili polverosi… la paura che è quasi peggiore di ogni altra cosa.