Guardai se c’era il violino, sul pavimento o contro la sedia; e quando vidi che non c’era pensai: «Be’, c’è ancora una possibilità».
«Resta qui a osservarlo», dissi a Gabrielle. Ma il cuore mi martellava in gola quando alzai gli occhi verso il teatro buio e aspirai i vecchi odori. Perché era necessario che ci portassi qui, Nicki? In questo luogo infestato? Ma, d’altra parte, chi sono io per chiederlo? Dovevo tornare, no?
Accesi la candela che trovai nel camerino della primadonna. Dovunque c’erano barattoli di cerone aperto, e molti costumi appesi ai ganci. Tutti i camerini erano pieni di indumenti smessi, pettini e spazzole dimenticati, fiori appassiti nei vasi, cipria rovesciata sul pavimento.
Pensai di nuovo a Eleni e agli altri, e mi accorsi che lì aleggiava un lieve odore di Cimitero degli Innocenti. Scorsi nitide orme di piedi scalzi sulla cipria sparsa. Sì, erano entrati. E avevano acceso le candele: l’odore della cera sembrava troppo fresco.
Comunque, non erano entrati nel mio vecchio camerino, il camerino che io e Nicki avevamo diviso prima di ogni rappresentazione. Era tuttora chiuso a chiave. Quando ruppi la serratura, ebbi un trauma sgradevole. Era esattamente come l’avevo lasciato.
Era pulito e in ordine, e persino lo specchio era lucido, e c’erano tutti i miei effetti personali come l’ultima sera che ero stato lì. C’era la mia vecchia giacca appesa al gancio, la giacca che avevo portato dalla campagna, c’erano un paio di stivali sciupati, i miei barattoli di cerone in perfetto ordine, e la parrucca che avevo portato solo a teatro, sul supporto di legno. Un mucchietto di lettere di Gabrielle, le vecchie copie dei giornali francesi e inglesi che parlavano della commedia e una bottiglia di vino semivuota, con il tappo rinsecchito.
E nel buio, sotto il ripiano di marmo della toeletta, in parte coperto da una giacca nera, c’era una custodia di violino. Non era quella che avevamo portato con noi dal paese. No. Doveva contenere il dono prezioso che avevo comprato per lui con «le monete del reame»: lo Stradivari.
Mi chinai e sollevai il coperchio. Era quello strumento bellissimo, delicato e lucente, e stava lì, tra tutte quelle cose prive d’importanza.
Mi domandai se Eleni e gli altri l’avrebbero preso, qualora fossero entrati nel camerino. Avrebbero capito che cosa poteva fare?
Posai la candela e lo presi, con attenzione, tesi le corde dell’archetto come avevo visto fare mille volte da Nicki. Poi riportai lo strumento e la candela sul palcoscenico. Mi chinai e incominciai ad accendere la lunga fila delle candele del proscenio.
Gabrielle mi guardava impassibile. Poi venne ad aiutarmi. Accese una candela dopo l’altra, e poi le appliques tra le quinte.
Mi sembrò che Nicki si riscuotesse. Ma forse era l’illuminazione crescente, la luce dolce che traboccava dal palcoscenico alla sala buia. Dovunque i drappeggi di velluto presero vita; i piccoli specchi della galleria e del loggione divennero luci anch’essi.
Era molto bello, quel luogo tutto nostro. La porta del mondo per noi come esseri mortali. E la porta dell’inferno.
Quando ebbi finito, mi fermai a guardare le balaustre dorate, il lampadario nuovo che pendeva dal soffitto, e l’arco con le maschere della commedia e della tragedia, come due volti che spuntavano dallo stesso collo.
Quand’era vuoto, sembrava molto più piccolo. Nessun teatro di Parigi sembrava più grande quand’era pieno.
Fuori c’era il rombo sordo del traffico del boulevard, e vocine umane si alzavano come scintille nel brusio generale. Poi dovette passare una carrozza pesante, perché tutto il teatro tremò: le fiammelle delle candele contro i riflettori, il grande sipario drappeggiato a destra e a sinistra, il fondale di uno splendido giardino dipinto con un cielo cosparso di nubi.
Passai davanti a Nicki, che non mi aveva guardato neppure una volta, e scesi la scaletta dietro di lui, mi avvicinai con il violino.
Gabrielle era tornata fra le quinte, con un’espressione fredda ma paziente. Si appoggiò a una trave con la disinvoltura di un uomo un po’ strano, dai capelli lunghi.
Abbassai il violino oltre la spalla di Nicki e glielo misi sulle ginocchia. Lo sentii muovere come se avesse tratto un grande respiro. La testa premeva contro di me. Lentamente alzò la mano sinistra per prendere il violino, e afferrò l’archetto con la destra.
M’inginocchiai e gli misi le mani sulle spalle. Gli baciai le guance. Nessun odore umano, nessun calore umano. La statua del mio Nicolas.
«Suona», sussurrai. «Suonalo per noi soli.»
Si girò lentamente verso di me, e per la prima volta dal momento dell’Opera Tenebrosa, mi guardò negli occhi. Emise un suono sommesso: un suono forzato, come se non potesse più parlare. Gli organi della favella s’erano chiusi. Ma poi si passò la lingua sulle labbra, e con voce così bassa che lo udii appena, disse:
«Lo strumento del diavolo».
«Sì», dissi io. Se devi crederlo, ebbene credilo. Ma suona.
Le sue dita rimasero librate sopra le corde. Battè con una falange il legno cavo. Poi, tremando, pizzicò le corde per intonarle e girò lentamente i bischeri, come se scoprisse il procedimento per la prima volta, con una concentrazione perfetta.
Fuori, sul boulevard, i bambini ridevano. Le ruote di legno passavano fragorosamente sui ciottoli. Le note staccate erano acri, dissonanti, e acuivano la tensione.
Per un momento Nicki premette lo strumento contro l’orecchio. E mi sembrò che restasse immobile per un’eternità. Poi si alzò, lentamente. Uscii dall’orchestra e mi avviai tra le panche, mi fermai a fissare la sua sagoma nera contro la luce del palcoscenico.
Si girò verso il teatro vuoto, come aveva fatto tante volte nel momento dell’intermezzo, e si portò il violino al mento. E, con un guizzo rapido che ai miei occhi fu un lampo di luce, abbassò l’archetto sulle corde.
I primi accordi palpitarono nel silenzio, si protrassero, divennero più profondi e parvero raschiare il fondo del suono stesso. Poi le note ascesero, ricche e scure e trillanti, come se fossero strappate al violino fragile dall’alchimia, fino a che un torrente tumultuoso di melodia inondò la sala.
Parve attraversare il mio corpo, passare nelle mie ossa.
Non vedevo il movimento delle dita, gli scatti dell’archetto; vedevo solo l’ondeggiare del suo corpo, la posa tormentata mentre lasciava che la musica lo torcesse, lo piegasse in avanti e lo scagliasse indietro.
Il suono divenne più alto e più acuto e svelto: tuttavia il tono di ogni nota era perfetto. Era un’esecuzione senza sforzo, un virtuosismo che trascendeva i sogni dei mortali. E il violino parlava; non si limitava a cantare. Insisteva. Narrava una storia.
La musica era una lamentazione, un futuro di terrore che si avvolgeva in ritmi ipnotici di danza, e squassava Nicki con violenza anche più grande. I suoi capelli erano un ciuffo lucente nelle luci della ribalta. Sudava sangue. Ne sentivo l’odore.
Ma anch’io mi ripiegavo su me stesso. Indietreggiavo, mi abbandonavo sulla panca quasi per ritrarmi, come già una volta in quella sala i mortali terrorizzati erano indietreggiati davanti a me.
E sapevo, sapevo con un’immensa pienezza che il violino narrava tutto ciò che era accaduto a Nicki. Era la tenebra esplosa, la tenebra disciolta, e la sua bellezza era come la luce delle braci; appena sufficiente per mostrare quanto era grande la tenebra.
Anche Gabrielle si sforzava di restare immobile sotto quell’assalto, con il viso contratto, le mani sulle tempie. La sua criniera leonina s’era sciolta, gli occhi erano chiusi.
Ma un altro suono giungeva attraverso la pura inondazione del canto. Loro erano presenti. Erano entrati nel teatro e si muovevano verso di noi, fra le quinte.