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Giravo su me stesso, tiravo affondi, indietreggiavo, rischiavo di cadere in ginocchio. Probabilmente la scena non si protrasse per più di mezz’ora. Ma è impossibile misurare il tempo in certi casi.

Quando mi sentii mancare le gambe, tentai un’ultima mossa disperata. Restai immobile con le armi al fianco. E questa volta si avventarono per finirmi, proprio come avevo sperato.

All’ultimo momento roteai il mazzafrusto, sentii la sfera spezzare l’osso, vidi la testa del lupo sollevarsi di scatto verso destra e con la spada gli squarciai il collo.

L’altro lupo era al mio fianco. Sentii le zanne affondarmi nelle brache. Di lì a un attimo mi avrebbe divelto la gamba. Lo colpii al muso e gli spaccai un occhio. Il lupo lasciò la presa. Balzai indietro; avevo di nuovo spazio sufficiente per usare la spada, e l’affondai fino all’impugnatura nel petto dell’animale, prima di estrarla.

Era tutto finito.

I lupi erano morti. Io ero vivo.

Nella valle ammantata di neve gli unici suoni erano il mio respiro e il rantolo della cavalla che giaceva poco lontano da me.

Non ero sicuro che avessi conservato la ragione. Non ero sicuro che le cose che mi passavano per la mente fossero pensieri. Avrei voluto lasciarmi cadere nella neve, eppure mi allontanavo dai lupi morti, mi avviavo verso la cavalla morente.

Quando mi avvicinai, alzò il collo, cercò di sollevarsi sulle zampe anteriori e lanciò di nuovo uno dei quei terribili nitriti supplichevoli. Il suono echeggiò tra le montagne. Sembrava raggiungere il cielo. Mi fermai a guardare il suo corpo dilaniato sul candore della neve, i quarti posteriori paralizzati, le zampe anteriori che annaspavano, il muso levato verso l’alto, gli orecchi ripiegati all’indietro, i grandi occhi innocenti che roteavano mentre lanciava quel grido. Era come un insetto semischiacciato sul pavimento, ma non era un insetto. Era la mia cavalla, e soffriva. Tentò nuovamente di alzarsi.

Presi il fucile dalla sella. Lo caricai. E, mentre la cavalla scuoteva la testa e cercava invano di sollevarsi di nuovo con quel nitrito stridulo, le sparai al cuore.

Adesso era tutto a posto. Giaceva immobile e morta, il suo sangue scorreva e nella valle regnava il silenzio. Rabbrividivo. Sentii un suono soffocante che usciva dalla mia bocca, e vidi il vomito sulla neve prima ancora di capire che era il mio. Avevo addosso l’odore dei lupi e l’odore del sangue. Quando tentai di camminare, per poco non caddi.

Ma non mi fermai neppure per un momento. Tornai ai lupi morti, a quello che per poco non mi aveva ucciso, l’ultimo, e me lo issai sulle spalle. Poi mi misi in cammino per tornare a casa.

Impiegai due ore, credo.

Non lo so. Ma ciò che avevo imparato o provato mentre combattevo contro i lupi continuava a ripetersi nella mia mente durante il cammino. Ogni volta che inciampavo e cadevo, qualcosa dentro di me s’induriva.

Quando arrivai alla porta del castello, non ero più Lestat, credo. Ero qualcun altro. Entrai barcollando nella grande sala con il lupo sulle spalle. Il caldo della carcassa si era quasi dileguato, e il fulgore del fuoco mi irritava gli occhi. Ero al di là dello sfinimento.

E, sebbene cominciassi a parlare mentre vedevo i miei fratelli alzarsi da tavola e mia madre fare una carezza rassicurante a mio padre, che già allora era cieco e voleva sapere cosa stava succedendo, non so che cosa dissi. So che la mia voce era inespressiva; e sentivo la semplicità della descrizione.

«E poi… e poi…» Qualcosa del genere.

Ma mio fratello Augustin mi scosse all’improvviso. Venne verso di me, con la luce del fuoco alle spalle, e spezzò la mia voce monotona con le sue parole.

«Piccola carogna», disse freddamente. «Tu non hai ucciso otto lupi!» La sua faccia aveva un’espressione di disgusto.

Ma la cosa più straordinaria fu questa; non appena ebbe parlato, si rese conto di aver commesso un errore.

Forse era la mia espressione. Forse era il mormorio scandalizzato di mia madre o il silenzio dell’altro fratello. Probabilmente era la mia faccia. Comunque fu una cosa istantanea, e Augustin assunse una stranissima aria d’imbarazzo.

Incominciò a balbettare che era incredibile, e che dovevo aver rischiato la vita, e disse che i servitori dovevano portarmi subito un brodo, e così via. Ma fu inutile. Ciò che era avvenuto in quel momento era irreparabile. Poi, ricordo che ero sdraiato, solo, nella mia camera. Non c’erano i cani sul letto con me, come sempre d’inverno, perché adesso erano morti. E, sebbene non ci fosse il fuoco acceso, mi infilai sotto le coperte, sporco e insanguinato, e piombai in un sonno profondo.

Rimasi nella mia stanza per diversi giorni.

Sapevo che i paesani erano saliti sulla montagna, avevano trovato i lupi e li avevano portati al castello; lo sapevo perché Augustin era venuto a dirmelo. Ma io non rispondevo.

Passò una settimana, credo. Quando sopportai l’idea di avere vicino altri cani, scesi nel mio canile e portai di sopra due cuccioli, già piuttosto grandi, e mi tennero compagnia. La notte dormivo in mezzo a loro.

I servitori andavano e venivano. Ma nessuno mi disturbava.

Poi mia madre entrò nella mia camera, quasi furtivamente.

2.

Era sera. Stavo seduto sul letto, con uno dei cani sdraiati accanto a me e l’altro steso sotto le mie ginocchia. Il fuoco sul camino ruggiva.

E finalmente venne mia madre. Come avrei dovuto aspettarmi, immagino.

La riconobbi dal movimento nell’ombra; e mentre avrei gridato «Via! Via!» se fosse stato un altro ad avvicinarsi, non le dissi nulla.

Nutrivo un grande amore, incrollabile, per lei. Credo che nessun altro le volesse tanto bene. E una cosa che me la rendeva sempre cara era il fatto che non diceva mai niente di ordinario.

«Chiudi la porta», «Mangia la zuppa», «Stai fermo»… erano frasi che non uscivano mai dalle sue labbra. Leggeva sempre; anzi, era l’unica della nostra famiglia che avesse un’istruzione, e quando parlava non lo faceva mai a sproposito. Perciò non mi risentii della sua presenza.

Al contrario, destò la mia curiosità. Che cosa avrebbe detto? E avrebbe cambiato qualcosa per me? Non avevo desiderato che venisse e non avevo neppure pensato a lei; non distolsi gli occhi dal fuoco per guardarla.

Ma tra noi c’era un’intesa foltissima. Quando avevo cercato di fuggire da quella casa ed ero stato riportato indietro, era stata lei a mostrarmi la via per uscire dalla sofferenza. Aveva fatto miracoli per me, anche se nessuno intorno a noi l’aveva mai notato.

Il suo primo intervento era stato quando avevo dieci anni e il vecchio parroco, che mi aveva insegnato qualche poesia a memoria e qualche inno in latino, voleva mandarmi a scuola in un vicino convento.

Mio padre disse di no: potevo imparare a casa mia tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Mia madre si staccò dai libri e s’impegnò in una battaglia contro di lui. Sarei andato, disse, se volevo andare. E vendette uno dei suoi gioielli per pagarmi libri e vestiti. Tutti i gioielli li aveva ereditati da una nonna italiana; ognuno aveva una sua storia, e per lei era doloroso sacrificarli. Ma lo fece immediatamente.

Mio padre s’irritò e le ricordò che, se questo fosse successo prima che diventasse cieco, sarebbe stato lui ad averla vinta. I miei fratelli gli assicurarono che il suo figliolo minore non sarebbe stato lontano a lungo: sarebbe tornato di corsa non appena gli avessero fatto fare qualcosa che non voleva.

Ma non tornai a casa di corsa. La scuola del convento mi piaceva.

Amavo la cappella e gli inni, la biblioteca con migliaia di vecchi libri, le campane che segnavano le fasi della giornata, i rituali sempre ripetuti. Amavo quella pulizia, il fatto che tutto era ben tenuto e in ordine e che il lavoro non si fermava mai nella grande casa e nell’orto.