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Gabrielle mi abbracciò e io la strinsi a me, le affondai il viso tra i capelli. La sua pelle, il suo viso, le sue labbra erano come velluto fresco. E il suo amore mi avvolgeva di una purezza mostruosa che non aveva nulla in comune con i cuori umani e la carne umana.

La sollevai e l’abbracciai. Nell’oscurità eravamo come due amanti scolpiti nella stessa pietra, senza più il ricordo di una vita separata.

«Ha compiuto la sua scelta, figlio mio», mi disse. «Ciò che è fatto è fatto, e ti sei liberato di lui.»

«Madre, come puoi dire una cosa simile?» mormorai. «Lui non sapeva. Ancora adesso non sa.»

«Lascialo andare, Lestat», disse Gabrielle. «Loro ne avranno cura.»

«Ma ora devo trovare quel demonio, Armand, no?» dissi stancamente. «Devo indurlo a lasciarli in pace.»

La sera dopo, quando andai a Parigi, seppi che Nicki era già stato da Roget.

S’era presentato un’ora prima e aveva bussato come un pazzo. Aveva gridato dall’ombra per pretendere l’atto di proprietà del teatro, e il denaro che, diceva, gli avevo promesso. Aveva minacciato Roget e i suoi familiari. Aveva detto a Roget di scrivere a Renaud e alla compagnia, a Londra, per dir loro di ritornare, perché avevano un teatro nuovo che li aspettava, e voleva che rientrassero subito. Quando Roget aveva rifiutato, aveva chiesto l’indirizzo londinese della compagnia e aveva incominciato a frugare nella scrivania.

Quando lo seppi, fui assalito da un furore silenzioso. Dunque intendeva trasformarli tutti in vampiri, il demonio novellino, il mostro ossessionato e implacabile?

Non potevo permetterlo.

Dissi a Roget di mandare un corriere a Londra per avvertire che Nicolas de Lenfent aveva perso la ragione. La compagnia non doveva tornare in Francia.

E poi andai al Boulevard du Temple e trovai Nicki impegnato nelle prove, eccitato e pazzo come prima. Aveva indossato di nuovo gli abiti eleganti e i gioielli del tempo in cui era il figlio prediletto del padre; ma la cravatta era storta, le calze cadenti, i capelli scarmigliati come quelli di un prigioniero della Bastiglia che non si fosse guardato in uno specchio per vent’anni.

In presenza di Eleni e degli altri gli dissi che non avrebbe avuto nulla da me se non avesse promesso che nessun attore o attrice di Parigi sarebbe stato ucciso o sedotto dalla nuova congrega, che Renaud e la sua compagnia non sarebbero mai stati chiamati nel Teatro dei Vampiri, né ora né in avvenire; che a Roget, il quale avrebbe tenuto i cordoni della borsa, non doveva assolutamente accadere nulla di male.

Rise di me, mi ridicolizzò come aveva già fatto. Ma Eleni lo costrinse a tacere. Era inorridita nello scoprire i suoi disegni dissennati. Fu lei a farmi le promesse e a esigerle dagli altri. Fu lei che lo intimidì e lo confuse con il linguaggio ingarbugliato delle vecchie consuetudini e lo obbligò a desistere.

E alla fine fu a Eleni che assegnai il controllo del Teatro dei Vampiri, e la rendita che doveva passare per le mani di Roget e che le avrebbe permesso di fare ciò che voleva.

Prima di lasciarla, quella notte, le chiesi che cosa sapeva di Armand. Gabrielle era con noi. Eravamo ritornati nel vicolo, accanto all’ingresso degli artisti.

«Armand osserva», rispose Eleni. «Qualche volta si lascia vedere.» La sua espressione mi confondeva. Era addolorata. «Ma solo Dio sa che cosa farà», soggiunse in tono timoroso, «quando scoprirà quello che succede realmente qui.»

PARTE V

IL VAMPIRO ARMAND

1.

Sprazzi di pioggia primaverile. Pioggia di luce che imbeveva ogni foglia nuova degli alberi per le vie e ogni lastra della pavimentazione; sprazzi di pioggia che portavano la luce nella tenebra vuota.

E il ballo al Palais Royal.

C’erano il re e la regina e ballavano con i popolani. Conversazioni nelle ombre dell’intrigo. Che importanza aveva? I regni sorgono e cadono. Purché non bruciassero i quadri del Louvre, ecco tutto.

Perduto nuovamente in un mare di mortali. Carnagioni fresche e guance rosse, montagne di capelli incipriati su teste femminili con tutte le assurdità della modisteria, persino piccoli velieri a tre alberi, minuscole piante, uccellini. Paesaggi di perle e di nastri. Uomini pettoruti, simili a galli nelle giacche di raso come ali piumate. I diamanti mi ferivano gli occhi.

A volte le voci mi toccavano la pelle, la risata era l’eco di un’ilarità empia, corone di candele accecanti, spuma di musica che lambiva le pareti.

Raffiche di pioggia dalla porta aperta.

Odori degli umani che alimentavano gentilmente la mia fame. Spalle bianche, colli bianchi, cuori potenti che battevano con un ritmo eterno, tante gradazioni tra quei bambini nudi nascosti nelle ricchezze, selvaggi avvolti nella ciniglia, incrostazioni di ricami, piedi indolenziti a causa dei tacchi alti, maschere simili a croste intorno agli occhi.

L’aria esce da uno dei corpi e viene aspirata da un altro. La musica passa da un orecchio all’altro, come afferma il vecchio detto? Respiriamo la luce, respiriamo la musica, respiriamo il momento che trascorre in noi.

Ogni tanto due occhi si posano su di me con una vaga aria d’attesa. La mia pelle bianca li fa indugiare; ma che significa, quando si fanno salassare per mantenere un pallore delicato? (Lasciate che sia io a reggere il bacile e a bere quel sangue.) E i miei occhi che cos’erano, in quel mare di gioielli finti?

Eppure i loro sussurri mi turbinavano intorno. E gli odori, ah, non ce n’era uno simile all’altro. E chiaramente, come pronunciato a voce alta, giungeva il richiamo dei mortali qua e là, nell’intuizione di ciò che ero, e giungeva il desiderio.

Porgevano il benvenuto alla morte in un antico linguaggio; aspiravano alla morte mentre passava attraverso la sala. Ma sapevano veramente? No, certo. E non sapevano! Quello era il perfetto orrore. E chi sono io per sopportare questo segreto, per smaniare di rivelarlo, e di prendere quella donna snella, là, e succhiare il sangue dalla carne soda del seno piccolo e tondo?

La musica turbinava, musica umana. I colori della sala fiammeggiavano per un istante come se tutto stesse per fondersi e dissolversi. La fame diventava più acuta. Non era più un’idea. Le mie vene ne palpitavano. Qualcuno sarebbe morto. Svuotato in meno di un momento. Non lo sopporto, sapere che sta per accadere, le dita sulla gola che sentono il sangue nella vena, sentono la carne che lo cede, lo cede a me! Dove? Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.

Lancia il tuo potere, Lestat, come una lingua di rettile per raccogliere in un lampo il cuore appropriato.

Braccia grassottelle, mature per essere strette, facce di uomini con un brillio di barba bionda ben rasata sulle guance, muscoli che lottano sotto le mie dita: non avete una possibilità!

E all’improvviso, sotto quella chimica divina, sotto quel panorama che rinnegava la putrefazione, io vedevo le ossa!

Teschi sotto le parrucche assurde, due fori che sbirciano dietro il ventaglio aperto. Una stanza di scheletri barcollanti in attesa del rintocco della campana. Esattamente come avevo visto gli spettatori quella notte nel teatro di Renaud, quando li avevo terrorizzati con i miei trucchi. L’orrore doveva colpire ogni altro essere presente.

Dovevo uscire. Avevo commesso un terribile errore di calcolo. Quella era la morte e io potevo allontanarmi, se fossi uscito! Ma ero impigliato negli esseri mortali come se quel luogo mostruoso fosse una trappola per un vampiro. Se fossi fuggito, avrei gettato nel panico tutti quanti. Mi spinsi verso le porte aperte, più dolcemente che potevo.