E contro la parete più lontana, uno sfondo di raso e filigrana, vidi con la coda dell’occhio, come qualcosa d’immaginario, Armand.
Armand.
Se c’era stata una chiamata, non l’avevo udita. Se c’era un saluto, non lo percepivo. Mi guardava, radioso di gemme e di pizzi. Sembrava Cenerentola rivelata al ballo, la Bella Addormentata che apriva gli occhi sotto una rete di ragnatele e le annientava con un movimento della mano calda. La tensione della bellezza incarnata mi strappò un gemito.
Sì, era un perfetto abbigliamento da mortale; tuttavia sembrava ancora più sovrannaturale, con il viso troppo abbagliante, gli occhi scuri profondissimi che per una frazione di secondo brillavano come se fossero finestre spalancate sui fuochi dell’inferno. E quando giunse la sua voce, era bassa e quasi provocante, e mi costrinse a concentrarmi per udirla: Mi hai cercato per tutta la notte, disse, ed eccomi qui, ad attenderti. Ti ho sempre atteso.
Credo che persino allora, mentre stavo immobile e incapace di distogliere lo sguardo, intuii che mai, negli anni di vagabondaggi sulla terra, avrei avuto una rivelazione più completa dell’orrore che noi siamo in realtà.
Sembrava di un’innocenza commovente, in mezzo alla folla.
Eppure, quando lo guardavo vedevo le cripte e udivo il rullo dei tamburi. Vedevo campi illuminati da torce, dove non ero mai stato, udivo incantesimi indistinti, sentivo il calore di fuochi furiosi. E non provenivano da lui, quelle visioni. Ero io a trarle spontaneamente.
Tuttavia Nicolas, mortale o immortale, non era mai apparso così affascinante. Gabrielle non mi aveva mai incantato così.
Buon Dio, questo è amore. È desiderio. E tutti i miei amori passati non sono stati altro che un’ombra di questo.
E mi sembrava che, in una pulsazione sussurrante al pensiero, mi rivelasse che ero stato molto sciocco a credere che non potesse essere così.
Chi può amarci, me e te, come possiamo amarci noi due? mormorava, e sembrava che le sue labbra si muovessero.
Altri lo guardavano. Li vedevo muoversi con ridicola lentezza; vedevo i loro occhi scrutarlo, vedevo la luce cadere su di lui con nuova angolatura quando abbassava la testa.
Stavo andando verso di lui. Mi sembrò che alzasse la mano destra e facesse un cenno… o forse no; poi si voltò e io vidi davanti a me la figura di un giovane, con la vita sottile e le spalle diritte e i polpacci solidi sotto le calze di seta, un ragazzo che si voltava mentre apriva una porta e faceva di nuovo un cenno.
Mi colpì un pensiero folle.
Lo seguivo, e sembrava che nessuna delle altre cose fosse accaduta. Non c’era una cripta sotto gli Innocenti, e lui non era stato il terribile demone antico. Eravamo al sicuro, chissà come.
Eravamo la somma dei nostri desideri, e questo ci salvava, e l’immenso orrore insondato della mia immortalità non si estendeva davanti a me, e navigavamo su mari calmi, tra fari conosciuti, ed era tempo di buttarci l’uno tra le braccia dell’altro.
Una camera buia ci circondava, fredda e isolata. Il rumore del ballo era lontano. Lui era riscaldato dal sangue che aveva bevuto, e sentivo la forza del suo cuore. Mi attirò vicino; al di là delle finestre balenavano le luci delle carrozze di passaggio, con suoni vaghi e incessanti che parlavano di sicurezza e di comodità e di tutte le altre cose che era Parigi.
Non ero mai morto. Il mondo stava ricominciando. Tesi le braccia e sentii il suo cuore contro di me, e lanciai un appello al mio Nicolas, cercai di metterlo in guardia, di dirgli che eravamo tutti condannati. La vita ci sfuggiva a poco a poco; e nel vedere i meli del frutteto, inondati dalla luce verde del sole, sentivo che sarei impazzito.
«No, no, carissimo», sussurrava lui. «Null’altro che la pace e la dolcezza e le tue braccia.»
«Sai, è stato un caso maledetto!» mormorai all’improvviso. «Sono un diavolo controvoglia. Piango come un bambino vagabondo. Voglio andare a casa.»
Sì, sì. Le sue labbra sapevano di sangue ma non era sangue umano. Era l’elisir che Magnus mi aveva donato, e provavo raccapriccio. Questa volta potevo sfuggire. Avevo un’altra possibilità. La ruota non aveva compiuto un giro completo.
Gridavo che non avrei bevuto; non volevo, e poi sentii due pugnali roventi affondarmi nel collo, fino all’anima.
Non potevo muovermi. Avveniva come quella notte, l’estasi, mille volte più grande di quando tenevo tra le braccia i mortali. E sapevo che cosa faceva! Si nutriva di me! Mi svuotava.
Scivolai in ginocchio e sentii che mi sosteneva, e il sangue sgorgava da me con una forza di volontà mostruosa che non potevo contrastare.
«Demonio!» cercai di urlare. Forzai quella parola fino a che eruppe dalle mie labbra e la paralisi abbandonò le mie membra. «Demonio!» ruggii di nuovo, e lo strinsi, lo scagliai riverso sul pavimento.
In un istante lo afferrai, sfondai la porta-finestra e lo trascinai fuori nella notte.
I suoi tacchi strusciavano sulle pietre, il suo viso era diventato un’espressione di pura furia. Gli afferrai il braccio destro e lo girai in modo che la testa ricadesse all’indietro e lui non potesse vedere dov’era, non potesse afferrarsi a nulla; e con la mano destra lo percossi fino a quando il sangue gli sgorgò dalle orecchie e dagli occhi e dal naso.
Lo trascinai fra gli alberi, lontano dalle luci del Palais. E, mentre si dibatteva, mentre cercava di risorgere con uno sprazzo di energia, mi dichiarò che mi avrebbe ucciso perché adesso possedeva la mia forza. L’aveva bevuta da me e, unita alla sua, lo avrebbe reso invincibile.
Esasperato, lo afferrai per il collo e spinsi giù la testa, contro il sentiero. Lo tenni inchiodato, strangolandolo, fino a che il sangue gli uscì a grandi fiotti dalla bocca aperta.
Avrebbe urlato, se avesse potuto. Gli premevo le ginocchia sul petto. Il collo si gonfiava sotto le mie dita, il sangue scaturiva gorgogliando, e lui girava la testa da una parte e dall’altra, i suoi occhi diventavano sempre più grandi ma non vedevano nulla: e poi, quando lo sentii debole e inerte, lo lasciai andare.
Lo picchiai di nuovo, girandolo di qua e di là. Quindi sguainai la spada per tagliargli la testa.
E provasse a vivere così, se poteva, e fosse immortale così. Alzai la spada, e quando lo guardai la pioggia gli batteva sulla faccia, e mi fissava, semivivo, incapace d’implorare misericordia, incapace di muoversi.
Attesi. Volevo che supplicasse. Volevo che mi facesse ascoltare quella voce potente piena di menzogne e di astuzie, la voce che mi aveva fatto credere, per un puro attimo abbagliante, che ero vivo e libero e di nuovo nello stato di grazia. Una menzogna maledetta, imperdonabile. Una menzogna che non avrei mai dimenticato per tutto il tempo che mi restava da trascorrere sulla terra. Volevo che la rabbia mi portasse oltre la soglia della sua tomba.
Ma non disse nulla.
E in quel suo momento di silenzio e di dolore, la sua bellezza tornò lentamente.
Giaceva sulla ghiaia del vialetto come un bambino straziato, a poca distanza dal traffico, dal clangore degli zoccoli dei cavalli e dal rombo delle ruote di legno.
E in quel bambino straziato c’erano secoli di malvagità e secoli di conoscenza; e non irradiava una supplica ignominiosa ma soltanto la sensazione morbida e dolorante di ciò che era. Un male antico, antichissimo, occhi che avevano visto epoche tenebrose, quali io potevo soltanto sognare.
Lo lasciai. Mi rialzai e rinfoderai la spada.
Mi allontanai di qualche passo e mi lasciai cadere su una panchina bagnata.
Lontano, vedevo le figure indistinte intorno alla porta-finestra sfondata del palazzo.
Ma tra noi e quei mortali confusi c’era la notte. Lo guardai con indifferenza, mentre era steso a terra.