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Gli si avvicinò. Non c’era nulla nei suoi modi che facesse pensare a una donna. Socchiuse gli occhi mentre lo guardava in faccia. «Ma questa è la lanterna nella cui luce vedo la Strada del Diavolo», disse. «Alla luce di quale lanterna tu l’hai percorsa? Che cosa hai imparato veramente, oltre al culto diabolico e alla superstizione? Che cosa sai di noi e di come abbiamo cominciato a esistere? Rivelacelo, e potrebbe valere qualcosa. O forse potrebbe non valere nulla.»

Armand era ammutolito. Non era abbastanza abile per nascondere lo sbalordimento.

La fissò con un’aria di confusione innocente. Poi si alzò e si allontanò cercando di sfuggirle: era uno spirito sofferente che guardava nel vuoto.

Il silenzio ci circondò. Per un momento mi sentii stranamente protettivo verso di lui. Gabrielle aveva detto la verità disadorna a proposito delle cose che le interessavano, come faceva sempre; e come sempre c’era qualcosa di violento e sprezzante nel suo modo di fare. Aveva parlato di ciò che le stava a cuore senza pensare a ciò che era accaduto a lui.

Vieni su un piano diverso, il mio piano, aveva detto. E Armand era umiliato e sminuito. La sua impotenza diventava allarmante. Non riusciva a riprendersi dall’attacco.

Armand si voltò e tornò verso le panche come se volesse sedersi, e poi verso i sarcofagi e quindi verso il muro. Sembrava che quelle superfìci solide gli ripugnassero, come se la sua volontà le affrontasse prima in un campo invisibile e ne venisse respinta.

Uscì dalla camera, raggiunse la scala di pietra, quindi si voltò e tornò indietro.

I suoi pensieri erano chiusi dentro di lui o, peggio ancora, in lui non c’erano pensieri!

C’erano soltanto le immagini confuse di ciò che vedeva davanti a sé, semplici cose materiali, la porta borchiata di ferro, le candele, il fuoco. Un’evocazione delle vie parigine, i venditori ambulanti e gli strilloni, le carrozze scoperte, il suono di un’orchestra, il frastuono orrido delle parole e delle frasi dei libri che aveva letto di recente.

Non potevo sopportarlo, ma Gabrielle fece un gesto severo per indicarmi di non muovermi.

Qualcosa stava avvenendo nella cripta. Qualcosa avveniva nell’aria stessa.

Qualcosa cambiò mentre le candele si consumavano e il fuoco scoppiettava e lambiva le pietre annerite, e i ratti si muovevano nella sottostante camera dei morti.

Armand stava sotto l’arcata, e sembrava che fossero trascorse ore anche se non era vero, e Gabrielle era lontana, nell’angolo, con il viso concentrato, gli occhi radiosi e socchiusi.

Armand stava per parlarci, ma non avrebbe dato una spiegazione. Non c’era direzione nelle cose che avrebbe detto: era come se l’avessimo sventrato e le immagini uscissero come sangue.

Armand era un ragazzo, là sulla soglia, e teneva le braccia conserte. E io sapevo che cosa provavo. Era un’intimità mostruosa con un altro essere, un’intimità che faceva apparire fiacchi e controllati persino i momenti estatici delle uccisioni. Lui non riusciva più a trattenere il torrente abbagliante delle immagini che faceva apparire esile e lirica e artificiale la sua vecchia voce silenziosa.

Era sempre stato quello il pericolo, la molla della mia paura? Mentre lo riconoscevo, io cedevo, e sembrava che tutte le grandi lezioni della mia vita fossero state apprese tramite la rinuncia alla paura. Ancora una volta la paura frantumava il guscio intorno a me perché qualcosa d’altro potesse balzare alla vita.

Mai, mai in tutta la mia esistenza mortale e immortale ero stato minacciato da una simile intimità.

3.

La storia di Armand

Adesso la camera era svanita. I muri erano scomparsi.

Vennero i cavalieri. Nuvole che si addensavano all’orizzonte. Poi urla di terrore. E un bambino dai capelli fulvi, nei rozzi panni da contadino, che correva e correva mentre i cavalieri si scatenavano e il bambino lottava e scalciava e poi veniva afferrato e gettato sulla sella di un cavaliere che lo portava via, al di là dei confini del mondo. Quel bambino era Armand.

E quelle erano le steppe meridionali della Russia, pur se Armand non sapeva che era la Russia. Conosceva la madre e il padre e la Chiesa e Dio e Satana, ma non comprendeva neppure il nome della patria o il nome della sua lingua, e non sapeva che i cavalieri erano tartari e che non avrebbe mai più veduto ciò che conosceva e amava.

Oscurità, il movimento tumultuoso della nave e la nausea incessante, l’emersione dalla paura e dalla disperazione, l’immensità splendente di palazzi impossibili, Costantinopoli negli ultimi giorni dell’impero bizantino, con le multitudini fantastiche e i mercati degli schiavi. La confusione delle lingue straniere, le minacce fatte nel linguaggio universale dei gesti, e tutto intorno i nemici che Armand non sapeva distinguere né placare né fuggire.

Sarebbero trascorsi anni e anni, di là da una vita mortale, prima che Armand rievocasse quel momento terribile e attribuisse nomi e storie ai funzionari bizantini di corte che avrebbero voluto castrarlo, e ai custodi degli harem islamici che avrebbero voluto fare altrettanto, e ai fieri guerrieri mamelucchi dell’Egitto che lo avrebbero portato con loro al Cairo se fosse stato più biondo e più forte, e ai veneziani eleganti con i farsetti di velluto, gli esseri più splendenti di tutti, cristiani come lui, che tuttavia ridevano tra loro mentre lo esaminavano e lui restava muto, incapace di rispondere e di supplicare, persino di sperare.

Vidi i mari davanti a lui, il grande azzurro ondeggiante dell’Egeo e dell’Adriatico, e di nuovo la nausea nella stiva e il voto solenne di non vivere più.

E poi i grandi palazzi moreschi di Venezia che si ergevano dalla superficie splendente della laguna, e la casa dov’era stato condotto, con le dozzine di camere segrete, la luce del cielo intravista solo dalle finestre chiuse da sbarre, e gli altri ragazzi che gli parlavano nelle dolci cadenze del veneziano, e le minacce e le lusinghe mentre veniva indotto, a dispetto delle sue parole e delle sue superstizioni, ai peccati che doveva commettere con l’interminabile processione di sconosciuti in quel panorama di marmi e di luce delle torce, mentre ogni camera si apriva su un nuovo quadro di tenerezza che si abbandonava allo stesso rituale e al desiderio inesplicabile e crudele.

E finalmente, una notte, quando per giorni e giorni aveva rifiutato di sottomettersi ed era affamato e dolorante e non voleva più parlare a nessuno, venne spinto di nuovo dalla stanza dov’era rinchiuso oltre una di quelle porte, così com’era, sporco e abbagliato dalla luce, e l’essere che lo attendeva, alto e vestito di velluto rosso, con il viso magro e quasi luminoso, lo toccò così dolcemente con le dita fresche che, quasi sognando, non pianse nel vedere le monete che passavano di mano. Ma erano molte monete. Troppe. L’avevano venduto. E la faccia era così levigata che forse era una maschera.

All’ultimo momento urlò. Giurò che avrebbe fatto quel che volevano, non si sarebbe più opposto. Qualcuno doveva dirgli dove lo portavano: non avrebbe più disobbedito, mai più. Ma, mentre veniva trascinato giù per le scale verso l’odore umido dell’acqua, sentì di nuovo le dita salde e delicate del nuovo padrone e, sul collo, le labbra fresche e tenere che non avrebbero mai, mai potuto fargli male, e quel primo bacio mortale e irresistibile.

Amore e amore e amore nel bacio del vampiro. Avvolse Armand e lo purificò, questo è tutto, mentre veniva portato sulla gondola e la gondola si muoveva come un grande scarabeo sinistro nello stretto rio, ed entrava nella volta sotto un’altra casa.

Ebbro di piacere. Ebbro delle seriche mani bianche che gli allisciavano i capelli e della voce che gli diceva che era bello; ebbro del volto che nei momenti intimi era intensamente espressivo e poi diventava sereno e splendente come se fosse fatto di gemme e alabastro. Era come una polla d’acqua rischiarata dalla luna. Bastava toccarlo con un dito perché tutta la vita salisse sulla superficie e poi svanisse di nuovo in silenzio.