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Quando mi scostai, mi sembrò di aver commesso un atto di grande arroganza. E avevo già violato i comandamenti tenebrosi, rivelando il nome di un immortale e mettendolo per iscritto. Ebbene, farlo mi dava una soddisfazione meravigliosa. E dopotutto, non ero mai stato molto portato a obbedire alle regole.

PARTE VI

SULLA STRADA DEL DIAVOLO DA PARIGI AL CAIRO

1.

Fu l’ultima volta che vedemmo Armand nel secolo decimottavo. Stava con Eleni e Nicolas egli altri attori vampiri davanti alla porta del teatro di Renaud a guardare la nostra carrozza che procedeva nel traffico del boulevard.

L’avevo trovato poco prima nel mio vecchio camerino: era con Nicolas, impegnato in una strana conversazione dominata dal sarcasmo e dal bizzarro ardore di Nicki. Portava una parrucca e una giacca rosso-scura, e mi sembrava che avesse già acquisito una nuova opacità come se ogni momento di veglia, dopo la fine della vecchia congrega, gli avesse conferito maggiore sostanza e maggiore forza.

Io e Nicki non avevamo nulla da dirci in quegli ultimi momenti imbarazzanti; ma Armand accettò garbatamente da me le chiavi della torre e un’ingente somma di denaro, con la promessa che Roget gliene avrebbe dato altro qualora ne avesse avuto bisogno.

La mente di Armand mi era chiusa; tuttavia, ripeté che non avrebbe fatto nulla di male a Nicolas. E, quando ci dicemmo addio, mi convinsi che Nicolas e la piccola congrega avevano ogni possibilità di sopravvivere e che io e Armand eravamo amici.

Al termine di quella prima notte io e Gabrielle eravamo lontani da Parigi, come avevamo deciso; e nei mesi che seguirono andammo a Lione, Torino e Vienna e quindi a Praga, Lipsia e Pietroburgo, poi di nuovo a sud, in Italia, dove saremmo rimasti per molti anni.

Finalmente proseguimmo per la Sicilia, e in seguito andammo in Grecia e in Turchia, poi ancora a sud attraverso le antiche città dell’Asia Minore e infine al Cairo, dove ci trattenemmo per diverso tempo.

E in tutti quei luoghi scrissi sui muri i miei messaggi per Marius.

A volte erano soltanto poche parole che scalfivo con la punta del coltello. In altri luoghi impiegavo ore per incidere nella pietra le mie elucubrazioni. Ma dovunque fossi scrivevo il mio nome, la data, la mia prossima destinazione e l’invito: «Marius, mettiti in contatto con me.»

In quanto alle vecchie congreghe, ne trovammo in numerose località: ma fin dall’inizio apparve chiaro che le antiche consuetudini stavano andando a pezzi. Avveniva di rado che più di tre o quattro vampiri continuassero i vecchi rituali; e quando capivano che non volevamo avere nulla a che fare con loro ci lasciavano in pace.

Molto più interessanti erano i solitari che scoprivamo nella società umana, vampiri che si fìngevano mortali con la nostra stessa abilità. Ma non ci avvicinavamo a loro. Fuggivano da noi come dovevano essere fuggiti dalle vecchie congreghe. E poiché nei loro occhi vedevo soltanto la paura, non ero tentato d’inseguirli.

Tuttavia era rassicurante sapere che non ero stato il primo demonio aristocratico a frequentare le sale da ballo del mondo in cerca di vittime… il gentiluomo esiziale che molto presto sarebbe apparso nei racconti e nelle poesie e nei bruttissimi romanzi popolari quale rappresentante tipico della nostra tribù. Ve n’erano altri che apparivano continuamente.

Ma nel nostro viaggio incontrammo creature delle tenebre ancora più strane. In Grecia trovammo demoni che non sapevano come erano stati creati, e a volte persino esseri folli, privi di raziocinio e di favella, che ci attaccavano come se fossimo mortali o fuggivano urlando quando recitavamo preghiere per spaventarli.

A Istanbul i vampiri vivevano nelle case, protetti da muri e porte, avevano le tombe nei giardini, e si abbigliavano come tutti gli umani di quelle terre, con vesti fluenti, per andare a caccia la notte per le strade.

Tuttavia anche loro inorridivano nel vedermi vivere tra i francesi e i veneziani e girare in carrozza e frequentare le feste nelle ambasciate e nelle residenze degli europei. Ci minacciavano, gridavano incantesimi, e scappavano in preda al panico quando reagivamo, e poi tornavano a perseguitarci.

I revenants che infestavano le tombe dei mamelucchi al Cairo erano mostri bestiali, vincolati alle antiche leggi da maestri insediati nelle rovine di un monastero copto. I loro riti erano pieni di magia orientale e di evocazione di molti demoni e spiriti maligni che chiamavano con nomi strani. Si tenevano lontani da noi, nonostante le minacce velenose che ci scagliavano: tuttavia conoscevano i nostri nomi.

Gli anni passavano, e non apprendevamo nulla da quegli esseri. E questo, naturalmente, non era per me una grande sorpresa.

E, sebbene in molte località i vampiri avessero sentito parlare delle leggende di Mario e degli altri antichi, non li avevano mai visti con i loro occhi. Persino Armand era diventato una leggenda per loro, e spesso domandavano: «Avete visto davvero il vampiro Armand?» Non incontrai un solo vampiro che fosse davvero vecchio. Non incontrai un solo vampiro che avesse una personalità magnetica, un essere dotato di grande saggezza e di qualità straordinarie, un essere eccezionale in cui il Dono Tenebroso avesse operato un’alchimia percettibile e degna di interesse.

Armand era una divinità in confronto a quegli esseri. E lo eravamo anche io e Gabrielle.

Ma sto correndo troppo.

Nei primi tempi, quando eravamo appena arrivati in Italia, acquisimmo una conoscenza più vasta degli antichi rituali. La congrega romana ci accolse a braccia aperte. «Venite al Sabba», ci dissero. «Venite nelle catacombe e partecipate agli inni.»

Sì, sapevano che avevamo distrutto la congrega di Parigi e avevamo sconfitto il grande maestro dei Segreti Tenebrosi, Armand. Ma non ci disprezzavano. Al contrario, non capivano cosa avesse indotto Armand a rinunciare al suo potere. Perché la congrega non era cambiata con i tempi?

Anche lì, infatti, dove le cerimonie erano così elaborate e sensuali da togliermi il respiro, anziché evitare le consuetudini degli uomini, i vampiri non rifuggivano dal farsi passare loro stessi per umani quando conveniva ai loro scopi. Era accaduto lo stesso con i due vampiri che avevamo visto a Venezia e con il piccolo gruppo incontrato poi a Firenze.

Avvolti in mantelli neri, si mescolavano alla folla all’opera, nei corridoi semibui dei palazzi durante i balli e i banchetti, e a volte frequentavano persino le taverne e le osterie, e spiavano gli umani da vicino. Qui, più che altrove, avevano l’abitudine di indossare gli abiti in uso al tempo della loro nascita, e spesso erano splendidamente abbigliati e ornati di gioielli, e ne facevano sfoggio.

Tuttavia, tornavano a dormire nei loro cimiteri fetidi, e fuggivano urlando davanti a ogni segno del potere celeste e si gettavano con abbandono selvaggio nei loro Sabba bellissimi e orripilanti.

In confronto i vampiri parigini erano stati primitivi, rozzi e infantili; ma capivo che erano state la raffinatezza e la mondanità di Parigi a spingere Armand e i suoi seguaci ad allontanarsi tanto dalle consuetudini dei mortali.

Mentre la capitale francese diventava laica, i vampiri si erano aggrappati alla vecchia magia; i mostri italiani, invece, vivevano tra umani molto religiosi, condizionati dalle cerimonie cattoliche, uomini e donne che rispettavano il male come rispettavano la Chiesa. In sostanza, le vecchie tradizioni dei demoni non erano diverse dalle vecchie tradizioni della gente italiana, e quindi i vampiri italiani si muovevano in entrambi i mondi. Credevano nelle vecchie usanze? Scrollavano le spalle. Per loro il Sabba era un grande piacere. Non era piaciuto anche a me e Gabrielle? Non avevamo partecipato alla danza?

«Tornate pure da noi quando volete», ci dissero i vampiri romani.