C’è un antico re, Osiride, un uomo dalla bontà ultraterrena che allontana gli egizi dal cannibalismo, insegna loro l’arte di coltivare le messi e di produrre il vino. E come viene assassinato dal fratello Set? Con un inganno, viene indotto a stendersi in una cassa delle esatte proporzioni del suo corpo; e Set inchioda il coperchio. Quindi getta la cassa nel fiume; e quando la sposa fedele, Iside, ritrova il corpo, Osiride viene attaccato nuovamente da Set che lo smembra. Tutte le parti del suo corpo vengono ritrovate, tranne una.
Ora, perché Marius aveva alluso a quel mito? Come potevo non pensare al fatto che tutti i vampiri dormono in sarcofagi, casse fatte secondo la misura dei loro corpi? Persino la marmaglia miserabile del Cimitero degli Innocenti dormiva nelle bare. Magnus mi aveva detto: «Dovrai sempre giacere in quella bara o in un’altra simile». In quanto alla parte mancante del corpo, la parte che Iside non aveva ritrovato, ebbene, vi è una parte di noi che non viene potenziata dal Dono Tenebroso, no? Possiamo parlare, vedere, sentire i sapori, respirare, muoverci come gli umani, ma non possiamo procreare. Non poteva neppure Osiride, che divenne Signore dei Morti.
Era un dio vampiro?
Ma c’erano tante cose che mì sconcertavano e mi tormentavano. Il dio Osiride era il dio del vino per gli egizi, e più tardi era stato chiamato Dioniso dai greci. E Dioniso era il «dio tenebroso» del teatro, il dio demoniaco che Nicki mi aveva descritto quando eravamo ragazzi, in Alvernia. E adesso avevamo a Parigi un teatro pieno di vampiri. Oh, era troppo.
Non vedevo l’ora di dire tutto ciò a Gabrielle.
Ma lei ascoltò con indifferenza e disse che c’erano centinaia di storie assai simili.
«Osiride era il dio del grano», disse. «Per gli egizi era un dio del bene. Cosa può avere a che fare con noi?» Lanciò un’occhiata ai libri che stavo studiando. «Hai molto da imparare, figlio mio. Molti dèi antichi furono smembrati e poi pianti dalle loro dee. Leggi le storie di Atteone e di Adone. Agli antichi queste storie piacevano molto.»
Poi se ne andò. Rimasi solo nella biblioteca al lume delle candele, in mezzo a tutti i libri.
Pensai al sogno di Armand, il sacrario tra le montagne di Coloro-che-devono-essere-conservati. Era una magia che risaliva ai tempi egiziani? Come mai i Figli delle Tenebre avevano dimenticato quelle cose? Forse era stato un capriccio poetico nel maestro veneziano, l’accenno a Set il fratricida, e niente di più.
Mi avventurai nella notte armato di scalpello. Incisi le mie domande per Marius su pietre che erano più vecchie di entrambi. Marius era diventato così reale per me, che era come se parlassimo, come avevamo fatto un tempo Nicki e io. Era il confidente che riceveva le mie emozioni, il mio entusiasmo, il mio stupore infinito per tutte le meraviglie e gli enigmi del mondo.
Ma quando i miei studi si approfondirono e le mie conoscenze si ampliarono, incominciai ad avere quel primo, impressionante indizio di ciò che poteva essere l’eternità. Ero solo tra gli umani, e i messaggi scritti a Marius non m’impedivano di essere conscio della mia mostruosità come lo ero stato in quelle prime notti a Parigi, molto tempo prima. In fondo, Marius non era là.
E non c’era neppure Gabrielle.
Fin dall’inizio o quasi, le predizioni di Armand si erano rivelate esatte.
2.
Ancor prima di lasciare la Francia, capitava che Gabrielle interrompesse il viaggio e scomparisse per intere notti. A Vienna, spesso rimaneva lontana per più di due settimane; e quando mi stabilii nel palazzo di Venezia, restò assente per mesi e mesi. Durante la mia prima visita a Roma, sparì per un semestre. E dopo che mi ebbe abbandonato a Napoli, tornai a Venezia senza di lei lasciando che tornasse nel Veneto da sola, come fece effettivamente.
Naturalmente l’attiravano la campagna, le foreste e le montagne e le isole dove non vivevano esseri umani. E ritornava così malconcia, con le scarpe consumate, gli abiti laceri, i capelli aggrovigliati, da apparire spaventosa quanto i membri della vecchia congrega parigina. Allora si aggirava nelle mie stanze in quell’abbigliamento sporco e negletto, e fissava le crepe dell’intonaco e la luce riflessa nei vetri delle finestre.
Perché gli immortali devono leggere i giornali o abitare nei palazzi? chiedeva. O portare monete d’oro in tasca? Oppure scrivere lettere ai parenti mortali?
Mi parlava sottovoce delle vette che aveva scalato, dei mucchi di neve, delle grotte piene di segni misteriosi e di antichi fossili.
Poi se ne andava, silenziosa com’era venuta, e io rimanevo ad attenderla amareggiato e furioso, e la trattavo con risentimento quando si decideva a ritornare.
Una notte, durante la nostra prima visita a Verona, mi fece trasalire in una strada buia.
«Tuo padre è ancora vivo?» chiese. Quella volta era rimasta assente due mesi. Avevo sentito terribilmente la sua mancanza, e lei adesso chiedeva dei nostri parenti come se le importasse qualcosa di loro. Ma quando risposi: «Sì, ed è molto ammalato», non mostrò di aver sentito. Cercai di dirle che in Francia le cose andavano molto male. Vi sarebbe stata sicuramente una rivoluzione. Lei scosse la testa con indifferenza.
«Non pensare più a loro», disse. «Dimenticali.» E se ne andò di nuovo.
Per la verità non volevo dimenticarli. Non avevo mai smesso di scrivere a Roget chiedendo notizie della mia famiglia. Scrivevo a lui più spesso di quanto scrivessi a Eleni al teatro. Avevo chiesto che mi inviassero ritratti dei miei nipoti. Spedivo regali in Francia da ogni località dove sostavo. E mi preoccupavo per la rivoluzione, come poteva preoccuparsene ogni francese mortale.
E finalmente, quando le assenze di Gabrielle divennero più prolungate e i momenti che trascorrevamo insieme più tesi e incerti, cominciai a discutere con lei.
«Il tempo porterà via la nostra famiglia», dicevo. «Il tempo porterà via la Francia che conoscevamo. Quindi perché dovremmo rinunciare a loro finché possiamo ancora averli? Ho bisogno di queste cose, ti dico. La vita è questo, per me!»
Ma non era la verità intera. Non avevo Gabrielle più di quanto avessi gli altri. E lei doveva sapere che cosa intendevo in realtà. Doveva aver capito le mie recriminazioni sottintese.
Erano discorsi che la rattristavano. Facevano affiorare in lei la tenerezza. Lasciava che le portassi abiti puliti e le pettinassi i capelli. Poi andavamo a caccia insieme e parlavamo. A volte veniva ai casinò con me o all’opera. Per un po’ tornava a essere una gran dama.
E quei momenti ci tenevano ancora legati. Perpetuavano la convinzione che fossimo ancora una piccola congrega, una coppia di amanti, vincitori del mondo mortale.
Quando stavamo seduti accanto al fuoco in una villa di campagna, o viaggiavamo insieme a cassetta sulla carrozza mentre io tenevo le redini, o passeggiavamo a mezzanotte nella foresta, ogni tanto ci scambiavamo ancora qualche osservazione.
Andavamo addirittura in cerca di case infestate… un passatempo nuovo ed eccitante. Anzi, a volte Gabrielle tornava da uno dei suoi viaggi proprio perché aveva sentito parlare di una presenza spettrale e voleva che andassi con lei a vedere.
Naturalmente, quasi sempre non trovavamo nulla negli edifici vuoti dove si diceva che apparissero gli spkiti. E gli sventurati che parevano posseduti dal diavolo spesso erano soltanto pazzi.
Tuttavia a volte vedevamo apparizioni fuggevoli o manifestazioni inspiegabili… oggetti scagliati qua e là, voci che uscivano ruggendo dalle bocche di bambini invasati, correnti gelide che spegnevano le candele nelle stanze chiuse.
Ma da tutto questo non imparammo mai nulla. Non vedemmo mai più di ciò che avevano già descritto cento studiosi mortali.
Alla fine, per noi divenne soltanto un gioco. E quando vi ripenso, adesso, so che lo facevamo perché serviva a farci restare insieme… ci offriva momenti conviviali che altrimenti non avremmo mai vissuto.