Non posso dire che a volte Gabrielle non mi ascoltasse con pazienza quando le parlavo di queste cose. Ascoltava quando le descrivevo le grandi opere d’arte che avevo visto nei Musei Vaticani o il coro che avevo sentito nella cattedrale, o i sogni che avevo avuto nell’ultima ora prima del risveglio, i sogni che sembravano provocati dai pensieri dei mortali di passaggio accanto al mio covo. Ma forse si limitava a guardare il movimento delle mie labbra. Chi poteva dirlo? Poi se ne andava di nuovo senza spiegazioni, e io mi aggiravo solo per le vie, sussurravo chiamando Marius e gli scrivevo i lunghissimi messaggi che a volte richiedevano una notte intera per venir completati.
Che cosa volevo da lei? Che fosse più umana, che fosse come me? Le predizioni di Armand mi ossessionavano. E com’era possibile che lei non ci pensasse? Doveva sapere cosa stava accadendo, doveva capire che ci stavamo allontanando, che il mio cuore si spezzava, ma ero troppo orgoglioso per confessarglielo.
«Ti prego, Gabrielle. Non sopporto la solitudine. Resta con me.»
Quando lasciammo l’Italia, avevo cominciato a fare piccoli giochi pericolosi con i mortali. Vedevo un uomo o una donna, un essere umano che mi sembrava spiritualmente perfetto, e lo seguivo. Lo facevo magari per una settimana o per un mese, a volte per un tempo ancora più lungo. M’innamoravo. Immaginavo un’amicizia, una conversazione, un’intimità che non potevano esistere. In un magico momento immaginario dicevo: «Ma tu vedi ciò che sono», e l’essere umano, in una suprema intesa spirituale, diceva: «Sì. Capisco».
Era assurdo, come la favola della principessa che dona il suo amore altruista al principe stregato e questi ritorna se stesso e cessa di essere un mostro. Ma in quella favola tenebrosa io mi fondevo con l’amante mortale. Ci trasformavamo in un unico essere e io ridiventavo di carne e di sangue.
Un’idea magnifica. Ma cominciavo a pensare sempre di più agli avvertimenti di Armand: avrei compiuto ancora l’Opera Tenebrosa per le stesse ragioni che mi avevano spinto a farlo in passato. Smisi quel gioco. Andavo semplicemente a caccia con tutta la crudeltà vendicativa di un tempo, e non uccidevo soltanto i malfattori.
Nella città di Atene scrissi questo messaggio per Marius:
«Non so perché continuo. Non cerco la verità. Non credo nella verità. Non spero di avere da te la rivelazione di antichi segreti, quali che siano. Ma credo in qualcosa. Forse semplicemente nella bellezza del mondo in cui mi aggiro, o nella volontà di vivere. Questo dono mi è stato dato troppo presto. Mi è stato dato senza una ragione valida. E già all’età di trent’anni mortali comincio a capire perché tanti dei nostri simili l’hanno sprecato e si sono arresi. Eppure io continuo. E ti cerco.»
Non so per quanto tempo avrei potuto continuare a vagare in Europa e in Asia. Per quanto mi lamentassi della solitudine, vi ero abituato. E c’erano città nuove come c’erano nuove vittime, nuove lingue e nuove musiche da ascoltare. Per quanto soffrissi, volgevo la mente verso una destinazione nuova. Volevo conoscere tutte le città della terra, persino le capitali lontane dell’India e della Cina, dove gli oggetti più semplici sarebbero parsi insoliti e le menti che penetravo sarebbero sembrate strane come se appartenessero a creature di un altro mondo.
Ma mentre viaggiavamo verso sud, da Istanbul nell’Asia Minore, Gabrielle sentiva ancora più forte il fascino della terra nuova e sconosciuta, e non era quasi mai al mio fianco.
Tutto stava per giungere a un orrido culmine in Francia, e non solo per il mondo mortale che ancora mi stava a cuore, ma anche per i vampiri del teatro.
3.
Fin da prima di lasciare la Grecia avevo sentito notizie inquietanti dai viaggiatori inglesi e francesi, a proposito dei disordini in patria. E quando arrivai al caravanserraglio europeo in Ankara, trovai ad aspettarmi un voluminoso pacco di lettere.
Roget aveva trasferito tutto il mio denaro dalla Francia a varie banche straniere. «Non pensate neppure di tornare a Parigi», mi scriveva. «Ho consigliato a vostro padre e ai vostri fratelli di tenersi fuori da ogni disputa. Qui non è aria per i monarchici.»
Anche le lettere di Eleni parlavano più o meno delle stesse cose:
Gli spettatori vogliono vedere ridicolizzata l’aristocrazia. La nostra commediola, che mostrava una goffa regina calpestata spietatamente da una schiera di soldati-pupazzi quando cercava di comandarli, ha suscitato grandi risate.
Anche il clero è esposto alla derisione. In un’altra commediola abbiamo un prete borioso che si presenta per rimproverare a un gruppo di ballerine-marionette il loro comportamento indecente. Purtroppo il maestro di ballo, che è un diavolo con le corna rosse, trasforma lo sfortunato prete in un lupo mannaro, e le ragazze, ridendo, lo chiudono in una gabbia dorata.
Tutto ciò è frutto del genio del nostro Divino Violinista; ma ormai dobbiamo stare con lui in ogni momento. Per costringerlo a scrivere, lo leghiamo alla sedia e gli mettiamo davanti inchiostro e carta. E se il sistema non funziona, ci facciamo dettare le commedie e pensiamo noi a scriverle.
Egli cerca di accostare i passanti per le strade e di spiegare loro, appassionatamente, l’esistenza di orrori inimmaginabili. E ti assicuro che, se Parigi non fosse tanto impegnata a leggere i pamphlet che accusano la regina Maria Antonietta, a quest’ora avrebbe potuto rovinarci tutti. Il nostro Più-vecchio-amico s’infuria sempre di più.
Naturalmente le scrissi subito, implorandola di avere pazienza con Nicki, di cercare di aiutarlo a superare quei primi anni. «Senza dubbio lo si può influenzare», scrissi. E per la prima volta chiesi: «Avrei il potere di cambiare le cose, se tornassi?» Guardai a lungo quelle parole prima di firmare. Mi tremavano le mani. Poi chiusi la lettera e la spedii immediatamente.
Come potevo tornare? Per quanto sentissi la solitudine, non sopportavo il pensiero di tornare a Parigi, di rivedere il teatrino. E cosa avrei fatto per Nicolas, quando fossi tornato? La lontana ammonizione di Armand mi echeggiava all’orecchio.
In realtà sembrava che, dovunque mi trovassi, Armand e Nicki fossero con me, Armand pronto a lanciare moniti e predizioni, Nicolas che mi sfidava con il piccolo miracolo dell’amore convertito in odio.
Non avevo mai avuto tanto bisogno di Gabrielle come l’avevo ora. Ma lei era già partita per precedermi nel viaggio. Ogni tanto ricordavo come erano andate le cose prima che lasciassimo Parigi. Ma da lei non mi aspettavo più niente.
A Damasco trovai ad attendermi la risposta di Eleni.
Lui ti disprezza più che mai. Quando gli suggeriamo che forse dovrebbe venire da te, ride. Ti dico queste cose non per tormentarti ma per farti sapere che facciamo di tutto per proteggere questo giovane che non avrebbe mai dovuto nascere alle Tenebre. E sopraffatto dai suoi poteri, abbagliato e travolto dalla sua visione. Già altre volte abbiamo visto finire tristemente storie come la sua. Il mese scorso, tuttavia, ha scritto il suo dramma più grande. I danzatori-marionette, che stavolta non hanno i fili, sono falciati nel fiore della giovinezza da una pestilenza e vengono sepolti sotto lapidi coperte di fiori. Il prete piange su di loro e se ne va. Ma un giovane violinista-mago viene nel cimitero e li risuscita con la sua musica. Escono dalle tombe come vampiri, tutti vestiti di gale di seta nera e nastri di raso nero, e ballano allegramente seguendo il violinista verso Parigi dipinta sul fondale. Il pubblico acclama. Ti assicuro che potremmo nutrirci di vittime umane sul palcoscenico e i parigini, credendola una nuova illusione, non farebbero altro che applaudire.