«Il fatto è che il piccolo mostro cercava di essere utile quando l’ha fatto, quando gli ha tagliato le mani, non credi? Deve essere stato doloroso per lui, in realtà, quando avrebbe potuto bruciare facilmente Nicki senza stare a riflettere.»
Lei annuì, mesta e bellissima. «Lo pensavo anch’io», disse. «Ma non credevo che tu fossi d’accordo.»
«Oh, sono un mostro quanto basta per comprenderlo», dissi. «Ricordi ciò che mi dicesti anni fa, prima che ce ne andassimo da casa? Lo dicesti il giorno in cui Nicki venne con i mercanti a offrirmi il mantello rosso. Dicesti che suo padre era furioso con lui perché suonava il violino, tanto che aveva minacciato di fracassargli le mani. Credi che troviamo comunque il nostro destino, qualunque cosa avvenga? Voglio dire, credi che anche da immortali seguiamo una strada che era già tracciata per noi quando eravamo vivi? Immagina… il maestro della congrega che taglia le mani.»
Nelle notti che seguirono apparve evidente che non voleva lasciarmi solo. Intuivo che sarebbe rimasta a causa della morte di Nicki, dovunque fossimo. Ma il fatto che ci trovassimo in Egitto facilitava le cose. Era d’aiuto che lei amasse quelle rovine e quei monumenti come prima non aveva amato null’altro.
Forse gli umani dovevano essere morti da seimila anni perché li amasse. Contavo di dirglielo per punzecchiarla un po’; ma il pensiero si affacciò e subito sparì. Quei monumenti erano antichi come le montagne che amava. Il Nilo aveva continuato a scorrere nell’immaginazione dell’uomo fin dagli albori del tempo documentato.
Scalammo insieme le piramidi, salimmo sulle braccia della gigantesca Sfinge. Meditammo sulle iscrizioni di antichi frammenti di pietre. Studiammo le mummie che si possono acquistare dai ladri per poche monete, i gioielli antichi, i vasi, i vetri. Facemmo scorrere tra le nostre dita l’acqua del fiume e andammo a caccia insieme per le viuzze del Cairo, andammo nei bordelli per sedere sui cuscini e guardare i ragazzi che danzavano e ascoltare i musici che eseguivano ardenti ritmi erotici e per qualche istante sommergevano il suono di un violino, quel violino che non cessava di suonare nella mia mente.
Mi sorprendevo ad alzarmi e a danzare selvaggiamente al ritmo di quelle melodie esotiche, a imitare gli ondeggiamenti di coloro che mi incitavano a continuare, e perdevo il senso del tempo e della ragione tra i lamenti dei corni e lo strimpellare dei liuti.
Gabrielle sedeva immobile e sorridente, con la tesa del cappello bianco di paglia abbassata sugli occhi. Non ci parlavamo più. Lei era una bellezza pallida e felina, con la guancia macchiata di terriccio, che vagava al mio fianco nella notte interminabile. La giacca stretta da un’alta cintura di pelle, i capelli avvolti in una treccia sulla schiena, camminava con la maestà di una regina e il languore di una vampira; la curva della sua guancia era luminosa nell’oscurità, la bocca minuta era una rosa rossa. Era incantevole e molto presto se ne sarebbe andata di nuovo, non c’era dubbio.
Tuttavia rimase con me anche quando presi in affitto una piccola casa lussuosa, già residenza di un nobile mamelucco, con i pavimenti splendidamente piastrellati e ricchi tendaggi. Mi aiutò persino a riempire il cortile di bugainvillee e di palme e di ogni altra specie di piante tropicali fino a trasformarlo in una piccola giungla verdeggiante. Portò pappagalli e fringuelli e canarini in gabbia.
E ogni tanto annuiva, comprensiva, quando mormoravo che non erano arrivate le lettere da Parigi ed ero fuori di me per la preoccupazione.
Perché Roget non mi aveva scritto? Parigi era esplosa nei tumulti e nel caos? Ma era accaduto qualcosa a Roget? Perché non scriveva?
Gabrielle mi chiese di risalire il fiume con lei. Io volevo attendere le lettere, interrogare i viaggiatori inglesi. Ma acconsentii. Dopotutto era abbastanza straordinario che mi avesse invitato ad andare con lei. A modo suo mi voleva bene.
Sapevo che aveva preso l’abitudine di vestirsi di freschi lini bianchi solo per farmi piacere. Era per me che si spazzolava i lunghi capelli.
Ma non aveva importanza. Sprofondavo. Lo sentivo. Andavo alla deriva nel mondo come in un sogno.
Mi sembrava molto naturale e ragionevole che intorno a me vedessi un paesaggio esattamente eguale a quello che migliaia di anni prima gli artisti avevano dipinto sulle pareti delle tombe reali. Era naturale che al chiaro di luna le palme apparissero identiche a quelle di allora. Era naturale che i contadini attingessero l’acqua del fiume nello stesso modo. E anche le mucche che abbeveravano erano le stesse. Visioni del mondo quando il mondo era giovane. Marius aveva mai camminato su quelle sabbie? Visitammo il gigantesco tempio di Ramses, incantati dalle minuscole immagini intagliate a milioni nelle pareti. Continuavo a pensare a Osiride, ma quelle figurette erano diverse. Visitammo le rovine di Luxor. Ci adagiammo insieme sulla barca che navigava sul fiume sotto le stelle.
Mentre tornavamo al Cairo, quando arrivammo ai grandi Colossi di Memnone, Gabrielle mi disse in un sussurro appassionato che alcuni imperatori romani erano venuti ad ammirare quelle statue, esattamente come noi.
«Erano antiche ai tempi dei Cesari», disse mentre viaggiavamo a dorso di cammello sulle sabbie fresche.
Quella notte il vento non infuriava. Potevamo vedere le immense figure di pietra che troneggiavano contro il cielo blu. Sebbene i volti fossero erosi, sembravano guardare davanti a sé, muti testimoni del passaggio del tempo, e il loro silenzio mi ispirava tristezza e paura.
Provavo la stessa meraviglia che avevo conosciuto davanti alle piramidi. Antichi dèi, antichi misteri. Mi davano un brivido di freddo. Eppure che cos’erano quelle figure, ormai, se non sentinelle senza volto, sovrani di un deserto sconfinato?
«Marius», sussurrai. «Tu li hai veduti? Qualcuno di noi potrà durare altrettanto a lungo?»
Ma la mia fantasticheria fu interrotta da Gabrielle. Voleva smontare e percorrere a piedi il resto della distanza per giungere alle statue. Ero disposto a seguirla, sebbene non sapessi cosa fare dei grossi cammelli, puzzolenti e ostinati, e come convincerli a inginocchiarsi.
Lo fece Gabrielle, e li lasciò ad attenderci. Ci avviammo sulla sabbia.
«Vieni con me nel cuore dell’Africa, nelle giungle», mi disse. Il suo volto era solenne, la voce insolitamente dolce.
Per un momento non risposi. Nei suoi modi c’era qualcosa che mi allarmava. O almeno, pensavo che avrei dovuto allarmarmi.
Avrei dovuto udire un suono netto come i rintocchi mattutini delle Campane dell’Inferno.
Non volevo avventurarmi nelle giungle africane. E lei lo sapeva. Attendevo con ansia notizie della mia famiglia da Roget, e avevo in mente di recarmi nelle città dell’Oriente, di vagare in India e in Cina e di spingermi fino al Giappone.
«Comprendo l’esistenza che hai scelto», mi disse. «E ho finito per ammirare la perseveranza con cui la persegui. Devo ammetterlo.»
«Potrei dire altrettanto di te», risposi con una certa amarezza.
Si fermò.
Eravamo vicinissimi alle statue colossali. E l’unica cosa che mi salvò dal sentirmi schiacciato fu il fatto che non vi era nulla, lì intorno, che permettesse di vederle in scala. Il cielo era immenso quanto loro, la sabbia era infinita, le stelle innumerevoli e fulgide e brillavano per l’eternità.
«Lestat», disse lei misurando le parole, «ti chiedo di tentare, solo per una volta, di muoverti nel mondo come faccio io.»
La luce della luna la investiva in pieno, ma il cappello ombreggiava il viso minuto e angoloso.
«Dimentica la casa del Cairo», disse all’improvviso, e abbassò la voce come per rispetto verso l’importanza di ciò che diceva. «Abbandona tutti gli oggetti di valore, i vestiti, le cose che ti legano alla civiltà. Vieni a sud con me, risali il fiume fin nel cuore dell’Africa, viaggia con me come viaggio io.»
Continuavo a tacere. Il mio cuore batteva forte.