Gabrielle mormorò che avremmo visto le tribù segrete dell’Africa, ignote al mondo. Avremmo lottato a mani nude contro leoni e coccodrilli. Forse avremmo trovato le sorgenti del Nilo.
Incominciai a tremare come se la notte fosse piena di venti ululanti. E non c’era un rifugio.
Stai dicendo che mi lascerai per sempre se non verrò. È così?
Alzai gli occhi verso le statue terribili. E credo che dissi: «Dunque si tratta di questo?»
Perciò mi era rimasta vicina e aveva fatto tante piccole cose per compiacermi, perciò eravamo insieme. Non aveva nulla a che vedere con il trapasso di Nicki nell’eternità. Era un’altra, la separazione che le interessava.
Scosse la testa come se dialogasse con se stessa e discutesse come doveva continuare. Con voce smorzata mi descrisse il caldo delle notti tropicali, più umido e dolce di quello presente.
«Vieni con me, Lestat», ripeté. «Di giorno io dormo nella sabbia. Non lascio impronte. Voglio scendere fino alla punta estrema dell’Africa. Sarò una dea per coloro che ucciderò.»
Si avvicinò e mi passò il braccio intorno alle spalle, mi premette le labbra sulla guancia e io vidi il brillio profondo dei suoi occhi sotto la tesa del cappello. E il chiaro di luna tracciava come uno strato di ghiaccio sulle sue labbra.
Sospirai. Scossi la testa.
«Non posso, e tu lo sai», dissi. «Non posso farlo, come tu non puoi stare con me.»
Durante il viaggio di ritorno al Cairo pensai a ciò che avevo provato in quei momenti dolorosi. A ciò che avevo conosciuto ma non avevo detto mentre stavamo davanti al Colossi di Memnone.
Per me era già perduta. Era perduta da anni. L’avevo saputo quando avevo sceso la scala della stanza dove avevo pianto per Nicki e l’avevo trovata ad aspettarmi.
Tutto era stato detto, in una forma o nell’altra, nella cripta sotto la torre, molti anni prima. Non poteva darmi ciò che volevo da lei. Non potevo far nulla per indurla a diventare ciò che non voleva essere. E la parte davvero terribile era questa: non voleva nulla da me!
Mi chiedeva di andare con lei perché si sentiva in dovere di farlo. Pietà, tristezza… forse c’erano anche queste ragioni. Ma voleva soprattutto essere libera.
Rimase con me mentre tornavamo alla città. Non faceva e non diceva nulla.
E io sprofondavo sempre di più, muto, stordito, e sapevo che presto sarebbe caduta un’altra mazzata spaventosa. C’era la chiarezza e c’era l’orrore. Lei mi dirà addio e non potrò impedirlo. Quando comincerò a perdere la ragione? Quando comincerò a piangere irrrefrenabilmente?
Non ora.
Mentre accendevamo le lampade della casetta, i colori mi aggredirono… i tappeti persiani coperti di fiori delicati, i tendaggi intessuti d’un milione di minuscoli specchi, il piumaggio vivace degli uccelli svolazzanti.
Cercai qualche plico inviato da Roget, ma non c’era. Mi adirai. Sicuramente avrebbe dovuto scrivere! Dovevo sapere che cosa succedeva a Parigi. Poi ebbi paura.
«Cosa diavolo succede in Francia?» mormorai. «Dovrò andare in cerca di altri europei. I britannici hanno sempre informazioni. Dovunque vadano si portano dietro il loro maledetto tè indiano e il Times di Londra.»
Mi infuriava vedere che lei mi stava davanti, immobile e silenziosa. Era come se stesse accadendo qualcosa… quel senso terribile di tensione e di anticipazione che avevo provato nella cripta, prima che Armand ci facesse il suo racconto.
Ma non accadeva nulla, e lei stava per lasciarmi per sempre. Stava per affidarsi per sempre al tempo. E come avremmo mai potuto ritrovarci?
«Maledizione», dissi. «Aspettavo una lettera.» I servitori non c’erano. Non avrebbero potuto sapere quando saremmo tornati. Volevo mandare qualcuno a ingaggiare qualche musico. Mi ero appena nutrito, ero riscaldato e dicevo a me stesso che volevo ballare.
All’improvviso lei ruppe l’immobilità. Si mosse lentamente, e andò in cortile.
La vidi inginocchiarsi accanto alla fontana. Sollevò due lastre della pavimentazione, tirò fuori un pacchetto, lo liberò dalla terra sabbiosa e me lo portò.
Prima ancora che lo portasse alla luce, vidi che l’aveva mandato Roget. Era arrivato prima che risalissimo il Nilo, ma Gabrielle me l’aveva nascosto!
«Perché l’hai fatto?» chiesi. Ero furibondo. Le strappai il plico dalle mani e lo posai sulla scrivania.
La fissavo con odio. Non l’avevo mai odiata tanto, neppure nell’egocentrismo dell’infanzia.
«Perché me l’hai tenuto nascosto?»
«Perché volevo avere una possibilità», sussurrò. Le tremava il mento. Vedevo le lacrime di sangue. «Ma anche senza questo», disse, «hai compiuto la tua scelta.»
Aprii il plico. La lettera scivolò fuori insieme ai ritagli di un giornale inglese. Spiegai la lettera con mani che tremavano e cominciai a leggere.
Monsieur, come ormai saprete il 14 luglio il popolo di Parigi ha assaltato la Bastiglia. La città è nel caos. Ci sono stati tumulti in tutta la Francia. Per mesi ho cercato invano di contattare i vostri parenti per farli uscire dal Paese, se era possibile.
Lunedì scorso ho però ricevuto la notizia che i contadini e i fìttavoli si sono ribellati contro la casa di vostro padre. I vostri fratelli, con le mogli e i figli e tutti coloro che cercavano di difendere il castello sono stati uccisi prima del saccheggio. Si è salvato solo vostro padre. Alcuni servitori devoti sono riusciti a nasconderlo durante l’assedio e, più tardi, a condurlo alla costa. Oggi si trova nella città di New Orleans, nell’ex colonia francese della Louisiana. E vi implora di aiutarlo. È sofferente e si trova in mezzo a estranei. Vi supplica di raggiungerlo.
C’era altro. Scuse, assicurazioni, particolari… non aveva più senso.
Posai la lettera sulla scrivania. Fissai il legno e la chiazza di luce formata dalla lampada.
«Non andare da lui», disse Gabrielle.
La sua voce era esile e insignificante nel silenzio. Ma il silenzio era un urlo immane.
«Non andare da lui», ripeté. Le lacrime le rigavano il viso come il trucco dei pagliacci, due lunghe striature rosse che scendevano dagli occhi.
«Vattene», mormorai. La parola si spense e poi la mia voce riacquistò forza. «Vattene», ripetei. La mia voce non si arrestò. Continuò fino a che esclamai con violenza devastante: «VATTENE!»
4.
Sognai la mia famiglia. Ci stavamo abbracciando. C’era persino Gabrielle, vestita di velluto. Il castello era annerito, bruciato. I tesori che vi avevo mandato erano fusi o trasformati in cenere. Tutto diventa cenere. L’antica citazione non dice cenere alla cenere, polvere alla polvere?
Non aveva importanza. Ero tornato e li avevo mutati tutti in vampiri, e noi della Casa dei Lioncourt eravamo bellissimi, bianchi in volto, incluso il bimbo che succhiava sangue e stava nella culla, e la madre che si chinava su di lui per porgergli il topo grigio vivo di cui doveva nutrirsi.
Ridevamo e ci baciavamo mentre camminavano tra le ceneri, io, i miei fratelli bianchi, e le mogli bianche, i bambini spettrali che parlavano delle vittime, e mio padre cieco che s’era alzato come un personaggio biblico e gridava:
«CI VEDO!»
Il mio fratello maggiore mi abbracciò. Era meraviglioso, vestito con eleganza. Non l’avevo mai visto con un aspetto così splendido, e il sangue vampirico lo aveva reso snello più che mai e gli aveva dato un’espressione spirituale che non aveva mai avuto.
«Sai, è stata un’ottima cosa che tu sia venuto quando sei venuto, con tutti i Doni Tenebrosi.» Rise allegramente.
«L’Opera Tenebrosa, caro, l’Opera Tenebrosa», disse sua moglie.
«Perché altrimenti», continuò lui, «ah, saremmo tutti morti!»