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5.

Adesso la casa era vuota. I bauli erano stati spediti. La nave sarebbe partita da Alessandria di lì a due notti. Restava solo una valigetta. A bordo, il figlio del marchese doveva cambiarsi d’abito ogni tanto. E c’era naturalmente il violino.

Gabrielle era sulla soglia del giardino, snella, con le gambe lunghe, bella e angolosa negli indumenti di cotone bianco, il cappello in testa come sempre, i capelli sciolti.

Erano per me, i capelli sciolti?

La mia angoscia cresceva: era una marea che includeva tutte le sofferenze, per i morti e per i non morti.

Ma poi passò e tornò la sensazione di sprofondare, il senso del sogno nel quale navighiamo indipendentemente dalla nostra volontà.

Mi colpì il pensiero che i suoi capelli avrebbero potuto essere descritti come una pioggia d’oro, e che tutte le vecchie poesie hanno una giustificazione quando guardi qualcuno che hai amato. Erano incantevoli, gli angoli del suo volto, la bocca piccola e implacabile.

«Dimmi di che cosa hai bisogno, madre», dissi a voce bassa. La stanza era a posto. Scrivania. Lampada. Sedia. Tutti i miei uccelli multicolori erano stati dati via, probabilmente sarebbero stati venduti nel bazar. I grigi pappagalli africani che vivono quanto gli uomini. Nicki aveva vissuto trent’anni.

«Hai bisogno di denaro?»

Un rossore bellissimo le salì al viso, gli occhi divennero un lampo di luce azzurra e violetta. Per un momento parve umana. Era come se fossimo nella sua camera, a casa. Libri, pareti umide, fuoco. Era umana, allora?

La tesa del cappello le coprì completamente il viso per un istante quando chinò la testa. Chiese, inesplicabilmente:

«Ma dove andrai?»

«In una casetta in rue Dumaine, nella vecchia città francese di New Orleans», risposi con fredda precisione. «E dopo che lui sarà morto in pace… non ne ho la minima idea.»

«Non puoi pensarlo davvero.»

«Ho prenotato sulla prossima nave in partenza da Alessandria», dissi. «Andrò a Napoli e poi a Barcellona. Da Lisbona partirò per il Nuovo Mondo.»

Il suo viso sembrò contrarsi, i lineamenti diventare più affilati. Mosse un po’ le labbra ma non disse niente. E poi vidi le lacrime salirle agli occhi, e sentii la sua emozione come se cercasse di toccarmi. Distolsi gli occhi, mi interessai a qualcosa che stava sulla scrivania, poi tenni le mani immobili perché non tremassero. E pensai: sono contento che Nicki abbia portato le sue mani nel fuoco, perché se non l’avesse fatto avrei dovuto tornare a Parigi a prenderle, prima di poter proseguire.

«Ma non puoi andare da lui!» bisbigliò Gabrielle.

Lui? Oh! Mio padre.

«Che cosa importa? Io vado», dissi.

Mosse leggermente la testa in un gesto di diniego. Si avvicinò alla scrivania. Il suo passo era più leggero di quello di Armand.

«Qualcuno della nostra specie ha mai compiuto una traversata come quella?» chiese sottovoce.

«No, che io sappia. A Roma hanno detto di no.»

«Forse è una traversata che non si può fare.»

«Si può fare. Lo sai.» Avevamo già navigato sui mari nei nostri feretri foderati di sughero. Guai al leviatano che mi disturbasse.

Si avvicinò ancora di più e mi guardò. Non poteva più nascondere l’espressione di sofferenza. Era incantevole. Perché mai l’avevo abbigliata con abiti da ballo o cappelli piumati e perle?

«Sai dove raggiungermi», dissi, ma l’amarezza del mio tono non lo rendeva convincente. «Gli indirizzi delle mie banche di Londra e Roma. Sono banche che hanno già vissuto quanto i vampiri ed esisteranno sempre. Lo sai, l’hai sempre saputo…»

«Basta», mormorò lei. «Non dirmi queste cose.»

Era una menzogna, una parodia, il tipo di dialogo che lei aveva sempre detestato e che odiava sostenere. Neppure nelle fantasie più scatenate avevo previsto che potesse essere così… che avrei pronunciato parole fredde e che lei avrebbe pianto. Avevo pensato che mi sarei messo a gridare quando mi avesse detto che se ne andava, e che mi sarei buttato ai suoi piedi.

Ci guardammo a lungo. I suoi occhi erano colorati di rosso, la sua bocca tremava un po’.

E poi persi il controllo.

Mi alzai, mi avvicinai, presi fra le braccia la sua figura piccola e delicata. Ero deciso a non lasciarla andare, per quanto si dibattesse. Ma lei non si oppose; piangemmo entrambi, quasi in silenzio, come se fossimo incapaci di smettere. Ma non si abbandonò al mio abbraccio.

Poi si scostò. Mi accarezzò i capelli con tutte e due le mani, e si tese e mi baciò sulle labbra, poi si allontanò in silenzio.

«Sta bene, mio tesoro», disse.

Scossi la testa. Parole e parole e parole non pronunciate. Lei non sapeva che farsene, come sempre.

Con quel suo modo languido, ancheggiando con grazia, andò alla porta del giardino e guardò il cielo notturno prima di voltarsi e guardare me.

«Devi farmi una promessa», disse alla fine.

Un giovane, audace francese che si muoveva con la grazia di un arabo nei luoghi di cento città dove soltanto un gatto poteva passare indenne.

«Certo», risposi. Ma ero così desolato che non volevo più parlare. I colori si affievolivano. La notte non era né calda né fredda. Mi auguravo che se ne andasse, eppure mi faceva terrore il momento in cui sarebbe accaduto e non avrei più potuto riaverla.

«Promettimi che non cercherai mai di farla finita», disse lei, «senza che prima ci siamo ritrovati.»

Per un momento fui troppo sorpreso per rispondere. Poi dissi: «Non cercherò mai di farla finita». Il mio tono era quasi sprezzante. «Quindi hai la mia promessa. È abbastanza semplice. Ma perché non fai tu una promessa a me? Prometti che mi farai sapere dove andrai, dove potrò raggiungerti… non svanirai come se fossi una creatura della mia immaginazione…»

M’interruppe. C’era una nota di urgenza nella mia voce, d’isteria crescente. Non immaginavo Gabrielle che scriveva una lettera e l’affidava alla posta o faceva una delle cose che i mortali fanno abitualmente. Era come se non avessimo una natura in comune e non l’avessimo mai avuta.

«Spero che non sbagli nel valutare te stesso», disse.

«Io non credo in niente, madre», replicai. «Molto tempo fa dicesti ad Armand che credi di trovare le risposte nelle giungle e nelle foreste; e che le stelle riveleranno finalmente un’immensa verità. Ma io non credo in niente e questo mi rende più forte di quanto immagini.»

«Allora perché ho tanta paura per te?» mi chiese. La sua voce era poco più di un singulto. Dovevo guardare il movimento delle sue labbra per capire.

«Tu senti la mia solitudine», risposi, «l’amarezza per essere escluso dalla vita. La mia amarezza perché sono malefico e non merito di essere amato e tuttavia ho un gran bisogno di amore. Il mio orrore perché non posso mai rivelarmi ai mortali. Ma tutte queste cose non mi fermano, madre. Sono troppo forte. Come dicesti tu stessa una volta, sono molto efficiente nell’essere ciò che sono. Queste cose mi fanno soffrire ogni tanto, ecco tutto.»

«Ti amo, figlio mio», disse.

Volevo insistere per ottenere la sua promessa a proposito degli agenti in Roma, delle lettere che doveva scrivere. Volevo dire…

«Mantieni la tua promessa», disse.

E all’improvviso compresi che era il nostro ultimo momento. Lo sapevo e non potevo far nulla per cambiarlo.

«Gabrielle!» mormorai.

Ma era già andata.

La stanza, il giardino, la notte, erano silenziosi e immoti.

Aprii gli occhi un po’ prima dell’alba. Ero steso sul pavimento e avevo pianto e poi mi ero addormentato.

Sapevo che sarei dovuto partire per Alessandria, che dovevo allontanarmi il più possibile e sprofondarmi nella sabbia prima del sorgere del sole. Sarebbe stato piacevole dormire nella terra sabbiosa. E sapevo che il cancello del giardino era aperto. Nessuna delle porte era chiusa a chiave.