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Ma non potevo muovermi. Freddamente e silenziosamente, immaginavo di cercare Gabrielle in tutto il Cairo. La chiamavo, le dicevo di tornare. Per un momento mi parve quasi che l’avessi fatto e, completamente umiliato, l’avessi rincorsa, e avessi cercato di parlare ancora del destino, che era scritto che io la perdessi, com’era scritto che Nicki perdesse le mani. In un modo o nell’altro dovevamo sovvertire il destino. Dovevamo trionfare.

Era insensato. E non l’avevo rincorsa. Ero andato a caccia ed ero rientrato. Gabrielle era ormai a parecchie miglia dal Cairo e per me era perduta come un minuscolo granello di sabbia nell’aria.

Finalmente, dopo molto tempo, girai la testa. Il cielo era cremisi sopra il giardino, la luce rossastra scendeva dal tetto lontano. Stava per giungere il sole… e il caldo e il risveglio di mille voci minuscole nei vicoli intricati del Cairo, e un suono che sembrava salire dalla sabbia e dagli alberi e dai ciuffi d’erba.

E molto lentamente, mentre ascoltavo queste cose, mentre vedevo il barbaglio della luce muoversi sul tetto, mi resi conto che nelle vicinanze c’era un mortale.

Era fermo al cancello aperto del giardino, e fissava la mia figura immobile nella casa vuota. Èra un europeo giovane e biondo vestito come un arabo. Piuttosto bello. E nella luce dell’alba vedeva un europeo come lui che giaceva sul pavimento in una casa abbandonata.

Rimasi a fissarlo mentre entrava nel giardino; la luce del cielo mi scottava gli occhi, e le palpebre cominciavano a bruciare. Il giovane era come un fantasma avvolto in un lenzuolo bianco.

Sapevo di dover fuggire. Dovevo allontanarmi immediatamente e nascondermi al sole. Non avevo possibilità di scendere nella cripta sotto il pavimento: quel mortale era nel mio covo. Non avevo neppure il tempo per ucciderlo e sbarazzarmi di lui, povero sventurato.

Tuttavia non mi mossi. Si avvicinò e tutto il cielo si accese dietro di lui e la sua figura divenne più esile e scura.

«Monsieur!» Il bisbiglio premuroso, come la donna che tanti anni prima, in Notre-Dame, aveva cercato di aiutarmi prima che uccidessi lei e il fìglioletto innocente. «Monsieur, cos’è successo? Posso aiutarvi?»

Il volto era abbronzato sotto le pieghe del copricapo bianco, le sopracciglia dorate luccicavano, gli occhi erano grigi come i miei.

Sapevo che mi stavo alzando, ma non per un atto di volontà cosciente. Sapevo che le mie labbra si aggricciavano sui denti. Poi udii il ringhio salirmi alla gola e lo vidi inorridire.

«Guardate!» sibilai, mentre le zanne mi scendevano sul labbro inferiore. «Vedete?»

Corsi verso di lui, gli afferrai il polso e mi premetti la sua mano sulla faccia.

«Credevate che fossi umano?» gridai. Lo sollevai, lo tenni sospeso mente scalciava e si dibatteva. «Pensavate che fossi un vostro fratello?» gridai. La sua bocca si aprì con un suono secco. Poi urlò.

Lo scagliai in aria, lontano dal giardino, e il suo corpo roteò con le braccia e le gambe protese prima di sparire oltre il tetto.

Il cielo era fuoco accecante.

Corsi fuori, nel vicolo, corsi sotto le piccole arcate e per le vie sconosciute. Abbattei porte e cancelli e scagliai i mortali lontano dal mio cammino. Sfondai i muri che mi si paravano davanti, mentre la polvere dell’intonaco saliva a soffocarmi, e ripiombai nei vicoli e nell’aria fetida. La luce continuò a inseguirmi.

E quando trovai una casa bruciata, con le grate in rovina, vi feci irruzione e sprofondai nel terreno del giardino, scavando sempre, fino a quanto non potei più muovere le braccia e le mani.

Ero sospeso nella frescura e nell’oscurità.

Ero salvo.

6.

Stavo morendo. O lo credevo. Non sapevo quante notti fossero passate. Dovevo alzarmi e raggiungere Alessandria. Dovevo attraversare il mare. Ma questo significava muovermi, girarmi nella terra, arrendermi alla sete.

Non volevo.

La sete venne e sparì. Era una tortura, e la mia mente aveva sete non meno del mio cuore, e il mio cuore divenne più grande e più rumoroso. E non mi arrendevo.

Forse i mortali, lassù, potevano sentire il mio cuore. Ogni tanto li vedevo, sprazzi di fiamma contro il buio, udivo le voci farfugliare in una lingua straniera. Ma più spesso vedevo soltanto la tenebra. Udivo soltanto la tenebra.

E finalmente divenni la sete che giaceva nella terra, con il sonno rosso e i sogni rossi, e la lenta certezza che ero troppo debole per spingermi in alto tra le zolle sabbiose, troppo debole per far girare di nuovo la ruota.

Era vero. Non avrei potuto risalire, se l’avessi voluto. Non potevo muovermi. Respiravo. Continuavo a esistere. Ma non era il modo in cui respiravano i mortali. Il cuore mi martellava nelle orecchie.

Ma non morivo. Mi consumavo. Come gli esseri torturati prigionieri nella terra sotto il Cimitero degli Innocenti, metafore abbandonate dell’infelicità che è dovunque, non vista, non riconosciuta e non usata.

Le mie mani erano artigli, la mia carne era ridotta all’osso, gli occhi sporgevano dalle orbite. E interessante che possiamo continuare così in eterno, che anche quando non beviamo e non ci abbandoniamo al piacere lussurioso e fatale continuiamo a esistere. Sarebbe interessante, cioè, se ogni battito del cuore non fosse una sofferenza tanto grande.

E se avessi potuto smettere di pensare: Nicolas de Lenfent non c’è più. I miei fratelli non ci sono più. Sapore pallido del vino, suono di applausi. «Ma non pensi che sia bene ciò che facciamo quando siamo qui, quando rendiamo felice la gente?»

«Bene? Di cosa stai parlando? Bene?»

«È bene, fa un po’ di bene, vi è un po’ di bene in ciò che facciamo. Dio, anche se non c’è un significato in questo mondo, sicuramente può esservi il bene. È bene mangiare, bere, ridere… stare insieme…»

Risate. Quella musica folle. Il chiasso, la dissonanza, l’interminabile articolazione stridula dell’insignificanza…

Sono sveglio? Dormo? Sono sicuro di una cosa. Sono un mostro. E poiché giaccio sottoterra fra i tormenti, certi esseri umani procedono indisturbati per lo stretto valico della vita.

Forse adesso Gabrielle è nelle giungle africane.

Ogni tanto i mortali venivano nella casa bruciata: erano ladri che si nascondevano. Troppo vociare in una lingua straniera. Ma non dovevo far altro che sprofondare di più in me stesso, ritirarmi persino dalla sabbia fresca per non ascoltarli.

Sono davvero in trappola?

Puzzo di sangue, lassù.

Forse sono l’ultima speranza, i due accampati nel giardino incolto, la speranza che il loro sangue mi attirerà verso l’alto, mi farà protendere questi orrendi artigli.

Li spaventerò a morte prima di bere. È una vergogna. Ero sempre stato così bello. Ma ora no.

Ogni tanto mi sembra che io e Nicki siamo impegnati nelle nostre conversazioni migliori. «Ora sono al di là della sofferenza e del peccato», mi dice. «Ma non senti nulla?» gli chiedo. «È questo che significa essere liberi, non provare più nulla?» Né infelicità, né sete, né estasi? Per me è interessante in questi momenti che il nostro concetto di paradiso sia un concetto d’estasi. Le gioie del paradiso. E che il nostro concetto dell’inferno sia la sofferenza. I fuochi dell’inferno. Perciò non consideriamo molto bello non provare nulla, no?

Puoi arrenderti, Lestat? O non è vero che preferisci lottare contro la sete con questo tormento infernale, piuttosto che morire e non sentire più nulla? Almeno hai il desiderio del sangue, caldo e delizioso che satura ogni particella del tuo essere… il sangue.