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Per quanto tempo quei mortali resteranno lassù nel mio giardino in rovina? Una notte? Due notti? Ho lasciato il violino nella casa dove abitavo. Devo riprenderlo e darlo a un giovane musicista mortale, qualcuno che…

Un silenzio benedetto. Ma c’è il suono del violino. E le dita bianche di Nicki battono sulle corde, l’archetto guizza nella luce e le facce delle marionette immortali hanno espressioni un po’ affascinate e un po’ divertite. Cent’anni fa, il popolo di Parigi l’avrebbe ucciso, e lui non avrebbe dovuto bruciarsi da sé. Forse avrebbero ucciso anche me. Ma ne dubito.

No, per me non ci sarebbe mai stato un luogo delle streghe. Nicki continua a vivere nella mia mente. Una pia frase dei mortali. E che sorta di vita è? Neppure a me piace vivere qui! Cosa significa vivere nella mente di un altro? Nulla, credo. Non ci sei realmente, no? Gatti nel giardino. Odore di sangue e di gatto. Grazie, ma preferisco soffrire e ridurmi come un guscio inaridito munito di zanne.

7.

D’improvviso, un suono nella notte. Cos’era?

La gigantesca grancassa suonata lentamente nelle strade del villaggio della mia infanzia quando i comici italiani annunciavano la rappresentazione messa in scena sul carro dipinto. La grancassa che io stesso avevo suonato per le strade della città durante quei giorni preziosi, quando io, il ragazzo fuggito da casa, ero stato uno di loro.

Ma era più forte. Era il rombo di un cannone che echeggiava fra valli e passi di montagna? Lo sentivo nelle ossa. Aprii gli occhi nella tenebra e compresi che si avvicinava.

Aveva il ritmo dei passi, oppure quello di un cuore che batteva? Il mondo era pervaso dal suono.

Era immenso e terribile e si avvicinava. Eppure una parte del mio essere sapeva che non era un suono reale e che un orecchio mortale non poteva udirlo, e che non poteva far tremare le porcellane su uno scaffale o i vetri delle finestre, non poteva far fuggire i gatti sopra i muri.

L’Egitto nasce nel silenzio. Il silenzio copre il deserto sulle due sponde del grande fiume. Non si ode neppure il belato delle pecore, il muggito dei bovini. O il grido lontano di una donna.

Eppure quel suono era assordante.

Per un secondo ebbi paura. Mi tesi nella terra. Sollevai le dita verso la superficie. Cieco, senza peso, galleggiavo nella terra; e all’improvviso non potevo respirare, non potevo urlare, e mi sembrava che se avessi urlato l’avrei fatto così forte da infrangere tutti i vetri per miglia e miglia intorno. I calici di cristallo sarebbero andati in frantumi, le finestre sarebbero esplose.

Il suono era più forte e più vicino. Tentai di rotolare su me stesso e di raggiungere l’aria, ma non ci riuscii.

E mi sembrò di vedere la cosa, la figura che si avvicinava. Un bagliore rosso nell’oscurità.

Era qualcuno che si accostava, quel suono, un essere così potente che persino nel silenzio lo sentivano gli alberi e i fiori e l’aria stessa. Le creature mute della terra lo sapevano. I vermi fuggivano, i felini si allontanavano dal suo cammino.

Forse è la morte, pensai.

Forse per qualche miracolo sublime la Morte è viva e ci prende tra le braccia e non è un vampiro, è la personificazione stessa del paradiso.

E noi ascendiamo e ascendiamo verso le stelle, superiamo gli angeli e i santi e l’empireo, e trapassiamo nella tenebra divina, il vuoto, quando lasciamo l’esistenza. Nell’oblio, tutto ci viene perdonato.

L’annientamento di Nicki diventa un punto minuscolo di luce morente. La morte dei miei fratelli si disintegra nella grande pace dell’inevitabile.

Premetti contro la terra. Scalciai. Ma le mie mani e le mie gambe erano troppo deboli. Sentivo in bocca il sapore del fango sabbioso. Sapevo che dovevo alzarmi, e il suono mi comandava di farlo.

Lo sentivo ancora, come il fragore dell’artiglieria. Il rombo del cannone.

E compresi che il suono cercava me. Mi cercava come un raggio di luce. Non potevo più restare lì a giacere. Dovevo rispondere.

Irradiai una folle corrente, un messaggio di benvenuto. Dissi che ero lì e sentii i miei respiri affannosi mentre mi sforzavo di muovere le labbra. E il suono divenne foltissimo, palpitò in ogni fibra del mio essere. La terra si muoveva con quel suono intorno a me.

Qualunque cosa fosse, era entrato nella casa in rovina.

La porta era stata sfondata come se i cardini fossero ancorati non nel ferro ma nel gesso. Vedevo tutto sullo sfondo delle mie palpebre chiuse. Lo vedevo muoversi sotto gli ulivi. Era nel giardino.

Freneticamente, raspai per raggiungere l’aria. Ma il rumore sordo e normale che sentivo adesso era di qualcosa che scavava la sabbia partendo dall’alto.

Sentii un che di vellutato sfiorarmi la faccia. E vidi sopra di me il brillio del cielo scuro e le nubi come un velo sopra le stelle, e i cieli non mi erano mai apparsi così benedetti in tutta la loro semplicità.

I miei polmoni si riempirono d’aria.

Esalai un gemito di piacere. Ma tutte le sensazioni trascendevano il piacere: respirare, vedere la luce… erano miracoli. Il suono, il rombo assordante sembrava un accompagnamento perfetto.

E colui che era venuto a cercarmi, colui che emanava il suono, stava davanti a me.

Il suono si dissolse, si disintegrò fino a divenire l’eco della vibrazione d’una corda di violino. E io salivo, come se venissi sollevato dalla terra, sebbene la figura restasse con le mani lungo i fianchi.

Finalmente alzò le braccia per stringermi e il volto che scorsi mi apparve al di là del regno delle possibilità. Quale di noi poteva avere quel volto? Che cosa sapevamo noi della pazienza, della bontà, della compassione? No, non era uno di noi. Non poteva essere. Eppure era così. Carne e sangue soprannaturali come i miei. Occhi iridescenti che raccoglievano la luce da tutte le direzioni, ciglia sottili come linee d’oro tracciate in punta di penna.

E quell’essere, quel vampiro potentissimo, mi sosteneva e mi guardava negli occhi. Dissi qualcosa di folle, credo, espressi qualche pensiero frenetico… che ora conoscevo il segreto dell’eternità.

«Allora rivelamelo», bisbigliò, e sorrise. Era l’immagine più pura dell’amore umano.

«O Dio, aiutami, sprofondami nell’inferno.» Era la mia voce che parlava. Non potevo guardare tanta bellezza.

Vedevo le mie braccia ossute, le mie mani smagrite come zampe d’uccello. Nulla può vivere e ridursi com’ero io. Mi guardai le gambe. Erano stecchi. Gli indumenti mi cadevano di dosso. Non potevo reggermi in piedi né muovermi, e all’improvviso fui sopraffatto dal ricordo della sensazione del sangue che mi scorreva nella bocca.

Come una fiamma cupa vedevo davanti a me le sue vesti di velluto rosso, il mantello che lo copriva fino a terra, le mani inguantate di rossoscuro che mi sostenevano. I capelli erano folti, fili bianchi e dorati mescolati in onde che cadevano sciolte intorno al volto e sulla fronte ampia. E gli occhi azzurri sarebbero apparsi cupi sotto le sopracciglia dorate se non fossero stati così grandi, così addolciti dal sentimento espresso nella voce.

Un uomo nel fiore degli anni al momento del dono immortale. E il viso quadrato, con le guance leggermente scavate, la bocca larga e piena, caratterizzato da una gentilezza terrificante e da un profondissimo senso di pace.

«Bevi», disse, e inarcò leggermente le sopracciglia. Le labbra formarono la parola attentamente, lentamente come fosse un bacio.

Come aveva fatto Magnus in quella notte letale di tanti millenni addietro, alzò la mano e si scostò il manto dalla gola. La vena purpurea sotto la pelle traslucida si offrì a me. E il suono ricominciò, quel suono travolgente, e mi sollevò dalla terra e mi sommerse.

Sangue come luce, fuoco liquido. Il nostro sangue.

E le mie braccia che trovavano una forza incalcolabile, gli cingevano le spalle, la mia faccia premuta contro la carne bianca e fresca, il sangue che mi discendeva nell’inguine e accendeva ogni vena. Quanti secoli avevano purificato quel sangue e distillato il suo potere?