Una volta, afferrandomi al ramo di un albero, mi voltai e vidi Marius che veniva verso di me, con il sacco sulla spalla, la mano destra libera. La baia, il paesetto lontano e il porto sembravano giocattoli, una mappa costruita da un bambino sul piano d’un tavolo con uno specchio e qualche manciata di sabbia e di pezzi di legno. Potevo vedere al di là del varco il mare aperto, e le sagome buie delle altre isole che si ergevano dallo specchio immobile. Marius sorrise e attese. Poi sussurrò gentilmente:
«Prosegui».
Dovevo essere dominato da un incantesimo. Ricominciai a salire e non mi fermai fino a che non arrivai in cima. Superai strisciando un’ultima sporgenza di rocce, e mi alzai sull’erba soffice.
Davanti a me c’erano rocce più alte: e da esse sembrava spuntare una fortezza immensa. C’erano luci alle finestre, luci nelle torri.
Marius mi cinse le spalle con un braccio e ci avviammo verso l’entrata.
La stretta si allentò quando si fermò davanti alla porta massiccia. Poi giunse il suono di un catenaccio che scorreva all’interno. La porta si aprì, la stretta ridivenne salda. Marius mi guidò nell’atrio dove due torce davano una luce viva.
Con un trasalimento, vidi che non c’era nessuno che poteva aver rimosso il catenaccio e aprire la porta. Marius si voltò, guardò la porta; il battente si chiuse.
«Fai scorrere il catenaccio», disse.
Mi chiesi perché non lo facesse lui, come aveva fatto il resto. Ma tirai immediatamente il catenaccio come mi aveva detto.
«È molto più facile in quel modo», disse con un’espressione leggermente maliziosa. «Ti mostrerò la camera dove potrai dormire sicuro; e potrai venire da me quando vorrai.»
Non sentivo nessun altro nella casa. Ma lì c’erano stati diversi mortali, lo sentivo. Avevano lasciato il loro odore qua e là. E le torce erano state tutte accese poco tempo prima.
Salimmo una scala sulla destra e, quando arrivai nella camera destinata a me, rimasi stupito.
Era immensa, con un’intera parete aperta su una terrazza dalla balaustra di pietra sospesa sopra il mare.
Quando mi voltai, Marius se n’era andato e il sacco era sparito. Ma il violino di Nicki e la mia valigia stavano sul tavolo di pietra, al centro della camera.
Una corrente di tristezza e di sollievo m’investì alla vista del violino. Avevo temuto di averlo perso.
Nella stanza c’erano panche di pietra, e una lampada a olio accesa su un supporto. E in una nicchia c’erano due pesanti battenti di legno.
Andai ad aprirli e trovai un piccolo corridoio che svoltava a «L». Oltre la svolta c’era un sarcofago con un coperchio molto semplice. Era di diorite, che a quanto ne so è una delle pietre più dure della terra. Il coperchio era immensamente pesante, e quando lo esaminai vidi che era rivestito di ferro e aveva un catenaccio che si poteva chiudere dall’interno.
Sul fondo c’erano diversi oggetti luccicanti. Quando li presi, scintillarono quasi magicamente nella luce che filtrava dalla camera.
C’era una maschera d’oro dai lineamenti modellati con cura, le labbra chiuse, i fori per gli occhi stretti come fessure, ed era fissata a un cappuccio formato da lamine d’oro martellato. La maschera era pesante, ma il cappuccio era leggerissimo e flessibile: ogni minuscola lamiera era fissata alle altre da un filo pure d’oro. E c’erano anche un paio di guanti di cuoio rivestiti di squame d’oro ancora più delicate e, infine, una grande coperta piegata di morbidissima lana rossa, con un lato ricoperto di lamine d’oro più grandi.
Compresi che, se avessi messo la maschera e i guanti e mi fossi avvolto nella coperta, sarei stato protetto contro la luce, anche nell’eventualità che qualcuno aprisse il sarcofago mentre dormivo.
Ma non era probabile che questo avvenisse. E anche la porta della camera a «L» era rivestita di ferro e aveva un robusto catenaccio.
Tuttavia, quegli oggetti misteriosi avevano un loro fascino. Mi piaceva toccarli e immaginavo me stesso che dormivo portandoli addosso. La maschera mi ricordava le maschere greche della commedia e della tragedia.
E facevano pensare alla sepoltura di un antico re.
Lasciai tutte quelle cose con riluttanza.
Ritornai nella camera, mi tolsi gli indumenti che avevo portato durante le notti passate sottoterra al Cairo, e indossai gli abiti puliti. Mi sentivo piuttosto assurdo, in quel luogo fuori del tempo, con una giacca blu-viola dai bottoni di perla, e la solita camicia di merletto e le scarpe di raso con le fibbie di diamanti; ma erano gli unici abiti che avessi. Mi legai i capelli all’indietro con un nastro nero, come si addiceva a un gentiluomo del secolo decimottavo, e andai in cerca del padrone di casa.
2.
Torce accese dappertutto. Le porte erano aperte. Le finestre si affacciavano sul firmamento e sul mare.
Quando lasciai la piccola scala spoglia che scendeva dalla mia camera, mi resi conto che per la prima volta, nei miei vagabondaggi, ero in un rifugio veramente sicuro per un immortale, arredato e fornito di tutte le cose che un immortale poteva desiderare.
Magnifiche urne greche stavano sui piedistalli nei corridoi, c’erano grandi statue bronzee orientali nelle nicchie, e piante squisite fiorivano a ogni finestra e a ogni terrazza aperta al cielo. Splendidi tappeti indiani, persiani e cinesi coprivano i pavimenti di marmo, dovunque andassi.
Trovai giganteschi animali imbalsamati che sembravano vivi… l’orso bruno, il leone, la tigre, persino l’elefante in una camera immensa, lucertole grosse come draghi, uccelli rapaci che stringevano rami secchi negli artigli.
Ma gli affreschi coloratissimi che coprivano ogni superficie dal pavimento al soffitto dominavano tutto.
In una camera c’era un dipinto scuro e vibrante del deserto arabo, con una carovana di cammelli e di mercanti, in dettagli squisiti. In un’altra sala, una giungla prese vita intorno a me: brulicava di fiori e liane tropicali e di foglie dipinte con estrema precisione.
L’illusione perfetta mi sbalordiva e mi affascinava: ma più osservavo i dipinti e più cose scoprivo.
C’erano esseri dovunque, nella giungla… insetti, uccelli, vermi nel suolo, un milione di aspetti diversi della scena mi davano la sensazione d’essere scivolato fuori del tempo e dello spazio per passare a qualcosa che era più di un affresco. Eppure tutto era reso in due dimensioni sulla parete.
Avevo le vertigini. Dovunque mi girassi, le pareti offrivano nuove vedute. Non avrei saputo dare un nome ad alcune delle tinte e delle sfumature.
In quanto allo stile dei dipinti, mi sconcertava anche se mi incantava. La tecnica sembrava molto realistica, e usava le proporzioni e gli accorgimenti classici che s’incontrano nei pittori del Rinascimento, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, nonché nei pittori di tempi più recenti, Watteau, Fragonard. L’uso della luce era spettacolare. Gli esseri viventi sembravano respirare sotto il mio sguardo.
Ma i dettagli. I dettagli non potevano essere realistici e in proporzione. C’erano troppe scimmie nella giungla, troppi bruchi che strisciavano sulle foglie. C’erano migliaia di minuscoli insetti in un affresco che raffigurava un cielo estivo.
Arrivai in una grande galleria: sulle pareti uomini e donne dipinti mi fissavano. Per poco non gridai. Erano figure provenienti da ogni epoca, beduini, egizi, poi greci e romani, e cavalieri in armatura e contadini e re e regine. C’erano personaggi rinascimentali con farsetti e calzemaglie, il Re Sole con la voluminosa criniera di riccioli, e infine gente contemporanea.