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Ma ancora una volta i dettagli mi facevano sentire come se li stessi solo immaginando… le gocce d’acqua aderenti a un mantello, lo sfregio su una guancia, il ragno semischiacciato sotto un lucido stivale di pelle.

Cominciai a ridere. Non era buffo. Era delizioso. Cominciai a ridere e a ridere.

Dovetti farmi forza per uscire da quella galleria, e l’unica cosa che me ne rese capace fu la vista di una biblioteca sfolgorante di luce.

Pareti e pareti di libri e di rotoli manoscritti, giganteschi mappamondi sui supporti lignei, busti delle antiche divinità greche, grandi carte geografiche spiegate.

Sui tavoli c’erano mucchi di giornali in tutte le lingue. E dovunque erano sparsi oggetti curiosi: fossili, mani mummificate, conchiglie esotiche. C’erano mazzi di fiori secchi, statuine e frammenti di antiche sculture e vasi d’alabastro coperti di geroglifici egizi.

E al centro, sparsi fra i tavoli e le vetrine, c’erano ampie poltrone con sgabelli, e candelabri o lampade a olio.

L’impressione era di un comodo disordine, lunghe ore di godimento puro, un luogo estremamente umano. Conoscenza umana, manufatti umani, poltrone dove potevano sedere gli umani.

Indugiai a lungo, adocchiando i titoli latini e greci. Mi sentivo un po’ ebbro, come se mi fosse capitato un mortale con una quantità di vino nel sangue.

Ma dovevo trovare Marius. Uscii dalla biblioteca, scesi una scala, attraversai un’altra galleria dipinta e arrivai in una camera ancora più grande ed egualmente piena di luce.

Sentii il canto degli uccelli e aspirai il profumo dei fiori prima ancora di entrare. E quando lo feci mi trovai sperduto in una foresta di gabbie. Non c’erano soltanto uccelli di ogni grandezza e colore, ma anche scimmiette e babbuini che si agitavano nelle piccole prigioni mentre io passavo.

C’era una folla di piante in vaso contro le gabbie, felci e banani, rose centifoglie, lunarie, gelsomini e rampicanti notturni dal profumo soave. C’erano orchidee bianche e purpuree, fiori cerei che intrappolavano gli insetti nelle loro fauci, piccoli alberi carichi di pesche, limoni e pere.

Quando alla fine uscii da quel piccolo paradiso, giunsi in una galleria di sculture degna di rivaleggiare con quelle dei Musei Vaticani. E scorsi altre sale adiacenti piene di quadri, arredi orientali, giocattoli meccanici.

Naturalmente ora non indugiavo più davanti a ogni oggetto, a ogni nuova scoperta. Ci sarebbe voluta una vita per esaminare tutto il contenuto della casa. Passavo oltre.

Non sapevo dove andavo. Ma sapevo che mi veniva permesso di vedere tutte quelle cose.

Finalmente udii il suono inconfondibile di Marius, il ritmico palpitare del cuore che avevo udito al Cairo. E mi mossi in quella direzione.

3.

Entrai in un salotto del secolo decimottavo, illuminato vivamente. I muri di pietra erano rivestiti da pannelli di legno di rosa con specchi incorniciati che salivano fino al soffitto. C’erano i soliti cassettoni laccati, poltrone, ricchi paesaggi, orologi di porcellana. Una piccola collezione di volumi nelle librerie con le ante a vetri, un giornale di data recente su un tavolino accanto a una poltrona di broccato.

Una porta-finestra si apriva sulla terrazza dove gigli bianchi e rose rosse irradiavano intensi profumi.

E là, accanto alla balaustra di pietra, stava un uomo del secolo decimottavo.

Mi voltava le spalle. Si girò e mi fece cenno di uscire.

Era vestito come me. La giacca era rossa, non viola, le trine erano di Valenciennes e non di Bruxelles. Ma era abbigliato più o meno allo stesso modo, con i capelli trattenuti da un nastro scuro, e non sembrava etereo come Armand; era piuttosto una presenza superiore, un essere dalla perfezione impossibile e non di meno legato a tutto ciò che gli stava intorno… gli abiti che portava, la balaustra su cui posava la mano, persino il momento in cui una nuvoletta passava davanti alla mezza luna.

Assaporai quel momento: lui e io stavamo per parlare, ed ero davvero lì. Avevo ancora la mente lucida come a bordo della nave, e non avevo sete. Sentivo che era il suo sangue a sostenermi. Tutti i vecchi misteri mi destavano e mi spronavano. Coloro-che-devono-essere-conservati si trovavano in quell’isola? Avrei saputo tutto?

Andai alla balaustra e mi fermai accanto a lui a guardare il mare. I suoi occhi erano fìssi su un’isola lontana meno di mezzo miglio dalla spiaggia sottostante. Ascoltava qualcosa che non potevo udire. E il suo profilo, nella luce che proveniva dalle porte aperte, sembrava di pietra.

Ma subito si rivolse a me con un’espressione ilare, e il suo volto levigato si rivitalizzò per un istante. Mi cinse con un braccio e mi guidò nella sala.

Camminava con lo stesso ritmo di un mortale, a passo leggero ma fermo, e il suo corpo si muoveva nello spazio in modo prevedibile.

Mi condusse a due poltrone che si fronteggiavano. Sedemmo. Eravamo più o meno al centro della sala. Il terrazzo era alla mia destra ed eravamo illuminati dal lampadario sospeso sopra di lui e da una dozzina di candelieri e di applique.

Era tutto molto naturale e molto decoroso. Marius si assestò comodamente sui cuscini di broccato e strinse le dita intorno ai braccioli della poltrona.

Quando sorrideva sembrava interamente umano: tutte le linee e l’animazione erano evidenti… fino a quando il sorriso non si dileguava di nuovo.

Cercavo di non fissarlo, ma non potevo farne a meno.

Un’espressione maliziosa si insinuò sul suo volto.

Il mio cuore battè più forte.

«Cosa sarebbe più facile per te?» domandò in francese. «Che io ti dica perché ti ho portato qui, o che tu mi dica perché volevi vedermi?»

«Oh, sarebbe più facile la prima cosa», risposi. «Parla tu.»

Rise, garbatamente.

«Sei un essere straordinario», disse. «Non mi aspettavo che discendessi così presto nella terra. Molti di noi fanno l’esperienza della prima morte assai più tardi… dopo un secolo o magari due.»

«La prima morte? Vuoi dire che è comune… sprofondare nella terra come ho fatto io?»

«È comune tra coloro che sopravvivono. Moriamo e risorgiamo. Coloro che non sprofondano nella terra per qualche periodo di tempo, di solito non durano.»

Ero sbalordito; ma era logico. E mi colpì un pensiero terribile: se Nicki fosse sprofondato nella terra anziché gettarsi nel fuoco… Ma non potevo pensare a Nicki, adesso. Altrimenti avrei cominciato a fare domande inutili e sciocche. Nicki è in qualche luogo? Nicki ha smesso di esistere? I miei fratelli sono in qualche luogo? Hanno smesso semplicemente di esistere?

«Ma non avrei dovuto essere tanto sorpreso se nel tuo caso è accaduto quanto è accaduto», riprese Marius, come se non avesse udito quei pensieri o non volesse prenderli in considerazione. «Hai perso troppe cose che ti erano care. Hai visto e imparato molto, e molto in fretta.»

«Come sai ciò che mi è accaduto?» chiesi.

Sorrise di nuovo, e quasi rise. Era sorprendente il calore che emanava da lui, l’immediatezza. Parlava in modo vivace… cioè, parlava come un francese colto.

«Non ti spavento, vero?» mi chiese.

«Non credo che cerchi di farlo», risposi.

«No.» Fece un gesto noncurante. «Ma il tuo autocontrollo è abbastanza stupefacente in ogni caso. Per rispondere alla tua domanda: so ciò che accade alla nostra specie in tutto il mondo. E francamente, non sempre comprendo come o perché lo so. È un potere che aumenta con l’età, come tutti i nostri poteri, ma rimane incoerente, difficile da dominare. Vi sono momenti in cui posso udire ciò che accade ai nostri a Roma e persino a Parigi. E quando un altro mi chiama come hai fatto tu, posso udire l’appello a distanze incredibili. Posso trovarne la fonte, come hai visto tu stesso.

«Ma le informazioni mi pervengono anche in altri modi. So dei messaggi che hai inciso per me sui muri in tutta Europa, perché li ho letti. E ho sentito parlare di te da altri. E a volte tu e io siamo stati vicini, più di quanto tu sospettassi… e ho udito i tuoi pensieri come posso udirli ora, naturalmente. Ma preferisco comunicare per mezzo delle parole.»