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Il ragazzo voltò la testa e sorrise: " Avevi ragione " balbettò. " Sono venuti, i compagni. Li hai visti, capo? "

Planetta non riuscì a rispondere ma con un supremo sforzo volse lo sguardo dalla parte indicata.

Dietro a loro, in una radura del bosco, erano apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembravano diafani come una nube, eppure spiccavano nettamente sul fondo scuro della foresta. Si sarebbero detti briganti, dall'assurdità delle divise e dalle loro facce spavalde.

Planetta infatti li riconobbe. Erano proprio gli antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a prenderlo. Facce spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale, barbe strappate dal vento, occhi duri e chiarissimi, le mani sui fianchi, inverosimili speroni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche, impolverate dalle battaglie.

Ecco là il buon Paolo, lento di comprendonio, ucciso all'assalto del Mulino. Ecco Pietro del Ferro, che non aveva mai saputo cavalcare, ecco Giorgio Pertica, ecco Frediano, crepato di freddo, tutti i buoni vecchi compagni, visti ad uno ad uno morire. E quell'omaccione coi grandi baffi e il fucile lungo come lui, su per quel magro cavallo bianco, non era il Conte, il famigerato capo, pure lui caduto per il Gran Convoglio? Sì, era proprio lui. Il Conte, col volto luminoso di cordialità e straordinaria soddisfazione. E si sbagliava Planetta oppure l'ultimo a sinistra, che se ne stava diritto e superbo, si sbagliava Planetta o non era Marco Grande in persona, il più famoso degli antichi capi? Marco Grande impiccato nella Capitale, alla presenza dell'imperatore e di quattro reggimenti in armi? Marco Grande che cinquant'anni dopo nominavano ancora a bassa voce? Precisamente lui era, anch'egli presente per onorare Planetta, l'ultimo capo sfortunato e prode.

I briganti morti se ne stavano silenziosi, evidentemente commossi, ma pieni di una comune letizia. Aspettavano che Planetta si movesse.

Infatti Planetta, così come il ragazo si levò ritto da terra, non più in carne ed ossa come prima, ma diafano al pari degli altri e pure identico a se stesso.

Gettato uno sguardo al suo povero corpo, che giaceva raggomitolato al suolo, Gaspare Planetta fece un'alzata di spalle come per dire a se stesso che se ne fregava e uscì nella radura, ormai indifferente alle possibili schioppettate. Si avanzò verso gli antichi compagni e si sentì invadere da contentezza.

Stava per cominciare i saluti individualmente, quando notò che proprio in prima fila c'era un cavallo perfettamente sellato ma senza cavaliere. Istintivamente si avanzò sorridendo.

" Così per dire " esclamò, meravigliandosi per il tono stranissimo della sua nuova voce. " Così per dire non sarebbe questo il mio Polàk, più in gamba che mai? "

Era davvero Polàk, il suo caro cavallo, e riconoscendo il padrone mandò una specie di nitrito, bisogna dire così perché quella dei cavalli morti è una voce più dolce di quella che noi conosciamo.

Planetta gli diede due tre manate affettuose e già pregustò la bellezza della prossima cavalcata, insieme ai fedeli amici, via verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era legittimo immaginare pieno di sole, dentro a un'aria di primavera, con lunghe strade bianche senza polvere che conducevano a miracolose avventure.

Appoggiata la sinistra al colmo della sella, come accingendosi a balzare in groppa, Gaspare Planetta disse:

" Grazie, ragazzi miei " disse, stentando a non lasciarsi vincere dalla commozione. " Vi giuro che… "

Qui s'interruppe perché si era ricordato del ragazzo, il quale, pure lui in forma di ombra, se ne stava in disparte, in atteggiamento d'attesa, con l'imbarazzo che si ha in compagnia di persone appena conosciute.

" Ah, scusa " disse Planetta. " Ecco qua un bravo compagno " aggiunse rivolto ai briganti morti. " Aveva appena diciassett'anni, sarebbe stato un uomo in gamba. "

I briganti, tutti chi più chi meno sorridendo, abbassarono leggermente la testa, come per dare il benvenuto.

Planetta tacque e si guardò attorno indeciso. Cosa doveva fare? Cavalcare via coi compagni, piantando il ragazzo solo? Planetta diede altre due tre manate al cavallo, tossicchiò furbescamente, poi disse al ragazzo:

" Be' avanti, salta su te. È giusto che sia tu a divertirti. Avanti, avanti, poche storie " aggiunse poi con finta severità vedendo che il ragazzo non osava accettare.

" Se proprio vuoi… " esclamò infine, il ragazzo, evidentemente lusingato. E con un'agilità che egli stesso non avrebbe mai preveduto, poco pratico come era stato fino allora di equitazione, il ragazzo fu di colpo in sella.

I briganti agitarono i cappelli, salutando Gaspare Planetta, qualcuno strizzò benevolmente un occhio, come per dire arrivederci. Tutti diedero di sprone ai cavalli e partirono di galoppo.

Partirono come schioppettate, allontanandosi tra le piante. Era meraviglioso come essi si gettassero negli intrichi del bosco e li attraversassero senza rallentare. I cavalli tenevano un galoppo soffice e bello a vedere. Anche da lontano, qualcuno dei briganti e il ragazzo agitarono ancora il cappello.

Planetta, rimasto solo, diede un'occhiata circolare alla valle. Sogguardò, ma appena con la coda dell'occhio, l'ormai inutile corpo di Planetta che giaceva ai piedi dell'albero. Diresse quindi gli sguardi alla strada.

Il Convoglio era ancora fermo, al di là della curva e perciò non era visibile. Sulla strada c'erano soltanto sei o sette cavalleggeri della scorta; erano fermi e guardavano verso Planetta. Benché possa apparire incredibile, essi avevano potuto vedere la scena: l'ombra dei briganti morti, i saluti, la cavalcata. In certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire.

Quando Planetta, rimasto solo, si voltò, il capo di quel drappello si accorse di essere guardato. Allora drizzò il busto e salutò militarmente, come si saluta tra soldati.

Planetta si toccò la falda del cappello, con un gesto molto confidenziale ma pieno di bonomia increspando le labbra a un sorriso.

Poi diede un'altra alzata di spalle, la seconda della giornata. Fece perno sulla gamba sinistra, voltò le spalle ai cavalleggeri, sprofondò le mani nelle tasche e se n'andò fischiettando, fischiettando, sissignori, una marcetta militare. Se n'andò nella direzione in cui erano spariti i compagni, verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era lecito supporre migliore di questo.

I cavalleggeri lo videro farsi sempre più piccolo e diafano; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con la sua sagoma ormai di vecchietto, un'andatura da festa quale hanno solo gii uomini sui vent'anni quando sono felici.

3. SETTE PIANI

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti. Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria – Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisonomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi. Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante. Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé. Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa. Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare. Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo. Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli. Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: " Anche lei sta qui da poco? " " Oh no " fece l'altro, " sono qui già da due mesi… " tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: " Guardavo giù mio fratello. " " Suo fratello? " " Sì " spiegò lo sconosciuto. " Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto. " " Al quarto che cosa? " " Al quarto piano " spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato. " Ma son così gravi al quarto piano? " domandò cautamente. " Oh Dio " fece l'altro scuotendo lentamente la testa, " non sono ancora così disperati, ma c'è comunque poco da stare allegri. " " Ma allora " chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, " allora, se al quarto sono già così gravi, al primo chi mettono allora? " " Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente… " " Ma ce n'è pochi al primo piano " interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma, " quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù. " " Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi " rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. " Dove le persiane sono abbassate là qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi " aggiunse ritraendosi lentamente, " mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri… " L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene così lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie. Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c'era – gli disse – ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato. " E allora resto al settimo piano? " aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto. " Ma naturalmente! " gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. " E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? " chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda. " Meglio così, meglio così " fece il Corte. " Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio… " Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie. Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole? Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera. " La ringrazio di cuore " fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; " da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto " aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. " Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria " si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, " è una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra. " " Le confesso " disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino, " le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto. " " Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini… Per carità " aggiunse ridendo apertamente, " non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni! " " Sarà " disse Giuseppe Corte, " ma mi sembra di cattivo augurio. " Il Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che ques