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— Non avvicinarti — disse lei brusca con gli occhi stretti in uno sguardo velenoso, e l’oltrepassò senza alterare il suo passo. Costernato dal vero e proprio disgusto della sua voce, l’osservò finché scomparve alla sua vista, poi lo sguardo gli cadde sul pavimento a mosaico chiaro. La traccia di impronte insanguinate gli raccontarono una storia ancora più orribile di qualunque altra avesse tentato di scacciare dalla sua mente.

“Leddravohr, oh Leddravohr, oh Leddravohr”, cantilenò dentro di sé. “Siamo indivisibili adesso, tu ed io. Ti sei legato a me… e solo la morte ci potrà separare”.

10

La decisione di attaccare Chamteth da ovest fu presa per ragioni geografiche.

Ai confini occidentali dell’impero Kolcorriano, un po’ a nord dell’equatore, c’era una catena di isolotti vulcanici che terminava in un triangolo di terra bassa di circa otto miglia di lato. Conosciuta come Oldock, l’isola disabitata presentava diversi aspetti di grande importanza strategica per Kolcorron. Intanto era abbastanza vicina a Chamteth da costituire un’eccellente testa di ponte per un attacco dal mare; poi era fittamente coperta di alberi di tallon e rafter, due specie che crescevano fino a una notevole altezza e offrivano quindi una buona protezione contro i ptertha.

Inoltre il fatto che Oldock e l’intera catena Fairondes giacessero su una linea di correnti d’aria prevalentemente occidentali era un altro vantaggio per le cinque armate di Kolcorron. Il vento costante che soffiava sul mare aperto, pur rallentando l’andatura e costringendo le aeronavi a fare uso continuo dei loro reattori ave va un’influenza ancora maggiore sul movimento dei ptertha, cui rendeva praticamente impossibile avvicinarsi alla preda. I telescopi mostravano i lividi globi che sciamavano pigri nelle correnti di alta quota, ma venivano per la maggior parte trascinati verso est quando cercavano di penetrare i livelli più bassi dell’atmosfera. Quando aveva studiato il piano di invasione, l’alto comando Kolcorriano aveva previsto di perdere più di un sesto dei suoi uomini a causa dei ptertha, invece i decessi effettivi erano insignificanti.

Mentre l’esercito procedeva sempre più a ovest, la durata del giorno e della notte subiva un graduale ma percettibile cambiamento. L’antigiorno si faceva via via più corto e il dopogiorno più lungo, mentre Sopramondo si spostava dallo zenit e si avvicinava all’orizzonte orientale. Infine Tantigiorno si ridusse a un breve sprazzo di colori mentre il sole attraversava il vuoto tra l’orizzonte e il pianeta gemello, ormai annidato al bordo orientale di Mondo. La piccola notte divenne un breve prolungamento della notte vera e propria, e ci fu un senso di vera eccitazione, tra gli invasori, quando l’aspetto del cielo disse loro che si trovavano ormai nel Paese dei Lunghi Giorni.

L’insediamento della postazione sulla spiaggia stessa di Chamteth era un’altra fase dell’operazione nella quale ci si aspettavano considerevoli perdite, e i comandanti Kolcorriani non riuscirono a credere alla loro buona fortuna quando trovarono le rive coperte alberi deserte e indifese.

L’esercito, suddiviso in tre ali separate, non incontrò alcuna resistenza, e poté riunirsi ed attestarsi senza una sola vittima, a arte i normali incidenti inevitabili quando grandi masse di uomini e materiali si addentrano in un territorio sconosciuto. Nella foresta, tra gli altri alberi, trovarono piccoli gruppi di brakka, e il giorno dopo i fanghisti erano già al lavoro in coda ai militari in marcia.

I sacchi di cristalli verdi e purpurei estratti dai brakka furono caricati separatamente su navi da carico (grandi quantità di pikonio e alvelio non venivano mai trasportate insieme), e in un tempo incredibilmente breve si gettarono le basi di una catena di rifornimento su tutto il territorio, fino a Ro-Atabri. La ricognizione aerea fu temporaneamente accantonata perché le aeronavi erano troppo grandi, ma, guidati dalle antiche mappe, gli invasori continuarono a spingersi verso ovest a ritmo costante. In certe zone il terreno era paludoso, e infestato di serpenti velenosi, ma non presentava alcun serio ostacolo per soldati ben addestrati, in ottime condizioni fisiche e morali.

Fu il dodicesimo giorno che un esploratore di pattuglia notò un’aeronave di forma sconosciuta correre via silenziosamente nel cielo sopra di loro.

In quel momento l’avanguardia della Terza Armata stava emergendo dal litorale acquitrinoso diretta verso una zona sopraelevata, una serie di collinette che correvano da nord a sud, dove la vegetazione era più rada. Per un esercito senza oppositori era il tipo di terreno ideale per un’avanzata, ma i primi difensori Chamtethani erano in attesa.

Erano uomini dalla pelle scura, con muscoli lunghi e barbe nere, che indossavano armature flessibili fatte di piccole lamine di brakka cucite insieme a scaglia di pesce, e si gettarono sugli invasori con una ferocia che neppure i più rodati Kolcorriani avevano mai incontrato prima. Alcuni sembravano gruppi suicidi intenzionati a causare il massimo danno e la massima confusione usando una varietà di armi a lunga gittata, cannoni, mortai e catapulte meccaniche che lanciavano bombe al pikonio-alvelio per creare diversivi che impedissero al nemico di organizzare un attacco.

Le truppe di sfondamento Kolcorriane, veterane di molte guerre di frontiera, distrussero i Chamtethani nel corso di un’estesa, lunga battaglia che durò quasi tutto il giorno. Caddero meno di cento uomini, circa la metà delle perdite del nemico, e quando il giorno seguente fu trascorso senza ulteriori incidenti, il morale degli invasori era di nuovo alle stelle.

Da quel momento in poi, essendo venuta meno la sorpresa, la fanteria fu preceduta da una copertura aerea di bombardieri e di ricognitori e la vista di quei velivoli ellittici che pattugliavano il cielo contribuì molto a rassicurare i soldati.

I loro comandanti erano meno tranquilli, però, poiché sapevano di aver incontrato solo una forza di difesa locale, e questo sottintendeva che la notizia dell’invasione era arrivata alle orecchie di Chamteth, e che la potenza di un enorme continente si sarebbe presto scatenata contro di loro.

11

Il generale Risdel Dalacott tolse il tappo della piccola bottiglia di veleno e ne annusò il contenuto.

Il fluido chiaro aveva un aroma curioso, di miele e di spezie allo stesso tempo. Era un distillato di estratti di semprevergine, l’erba che masticata regolarmente impediva alle donne di concepire. Nella sua forma concentrata era anche più biofoba e offriva una fuga dolce, indolore e assolutamente sicura da tutte le tribolazioni della carne. Godeva di grande considerazione tra quelli dell’aristocrazia Kolcorriana che non avevano propensione per i più onorevoli ma sanguinosissimi metodi tradizionali di suicidio.

Dalacott vuotò la bottiglia nella sua coppa di vino e, dopo solo una piccola esitazione, ne assaggiò un sorso. Il sapore del veleno si sentiva appena, anzi, si poteva quasi dire che avesse migliorato quello del vino aspro, aggiungendogli un pizzico di speziata dolcezza. Bevve un altro sorso e mise da parte la coppa, non volendo abbandonarsi troppo in fretta all’ultimo sonno. Doveva ancora portare a termine l’ultimo dovere che si era imposto.

Guardò la sua tenda, ammobiliata solo con una brandina, un baule, la sua scrivania portatile e qualche sedia pieghevole di paglia. Altri ufficiali di grado superiore amavano circondarsi di lusso per mitigare il rigore delle campagne militari, ma ciò non rientrava nel carattere di Dalacott. Era sempre stato un soldato ed era vissuto come un soldato dovrebbe vivere, e il motivo per cui aveva deciso di morire di veleno anziché di spada era che si riteneva più degno di una morte da soldato.

Era buio, dentro la tenda, perché l’unica luce veniva da una lanterna da campo militare, del tipo che si alimentava da sola attirando cimici oleose. Ne accese una seconda e la mise sulla scrivania, trovando ancora un po’ strano che si dovesse ricorrere a quei metodi per leggere di notte. In un punto così occidentale di Chamteth, oltre il Fiume Arancione, Sopramondo era nascosto sotto l’orizzonte e il periodo diurno consisteva in dodici ore di luce ininterrotta cui seguivano dodici ore di oscurità completa. Se Kolcorron fosse stata in quell’emisfero i suoi scienziati avrebbero probabilmente escogitato da tempo un efficiente sistema di illuminazione.