Toller, interessato alla leggerezza del suo corpo, volle fare un salto, e questo fu il suo primo ed ultimo esperimento del genere. Salì molto più in alto di quanto intendesse e per un momento, mentre roteava sospeso in aria, ebbe la terribile sensazione di essersi staccato dalla nave per sempre. La navicella aperta, con le sue pareti all’altezza del petto, gli apparve come una struttura fragile, con i montanti e i pannelli troppo deboli per il loro scopo. Ebbe il tempo di immaginare cosa sarebbe successo se un pezzo di pavimento avesse ceduto quando lui ci fosse atterrato sopra, lanciandolo nell’aria celeste 1400 miglia al di sopra del suo Mondo.
Sarebbe stata una caduta interminabile, in piena consapevolezza, senza niente da fare se non guardare il pianeta distendersi affamato sotto di lui. Anche il più coraggioso degli uomini avrebbe infine dovuto cominciare a urlare.
— Sembra che abbiamo perso un bel po’ di velocità durante la notte, capitano — riferì Zavotle dal posto di pilotaggio. — La fune di sgonfiamento è quasi piatta, anche se, certamente, non ci si può più fare molto affidamento.
— È tempo di usare il reattore, comunque — disse Toller. — Da ora in poi, fino a quando torneremo, useremo il bruciatore solo quanto basta per tenere gonfio il pallone. Dov’è Rillomyner?
— Qui, capitano. — Il meccanico emerse dall’altro reparto passeggeri. La sua figura tozza era piegata in due, e lui si teneva stretto alle tramezze con lo sguardo fisso sul pavimento.
— Cos’hai, Rillomyner? Ti senti male?
— Non sto male, capitano. Io… io non voglio semplicemente guardare fuori.
— Perché no?
— Non posso, capitano. Sento come qualcosa che mi spinge oltre il fianco della nave. Ho paura di finire fuori.
— Sai che questo non ha senso, vero? Toller pensò al suo stesso momento di paura incontrollabile e divenne subito più comprensivo. — Questo influirà sul tuo lavoro?
— No, capitano. Il lavoro mi sarà d’aiuto.
— Bene! Fai un’accurata ispezione dei reattori, principale e laterali, e assicurati che il flusso dei cristalli sia regolare; non possiamo permetterci nessun contraccolpo a questo punto.
Rillomyner fece il saluto al pavimento, e andò a prendere i suoi attrezzi a testa bassa. Seguì un’ora di pace, senza il rumore ritmico del bruciatore, mentre Rillomyner ne controllava i comandi, alcuni dei quali erano in comune con il reattore principale. Flenn preparò e servì una colazione di farina d’avena guarnita di piccoli cubi di maiale salato, lamentandosi continuamente del freddo e della difficoltà di mantenere acceso il fuoco in cambusa. Il suo umore migliorò un po’ quando seppe che Rillomyner non avrebbe mangiato, e trascurando per una volta le prese in giro sui suoi problemi intestinali sottopose il meccanico a un fuoco di fila di battute sui rischi del cadere nel vuoto.
Coerente con la sua millanteria, Flenn sembrava indifferente alle inquietanti fessure di cielo che brillavano attraverso gli interstizi del pavimento. Alla fine del pasto andò addirittura a sedersi sul parapetto della navicella, con un braccio negligentemente gettato intorno a un montante di accelerazione, continuando a prendere in giro l’infelice Rillomyner. Anche se Flenn si era legato, vederlo appollaiato lì appoggiato a uno schienale di cielo provocò una tale morsa di ghiaccio allo stomaco di Toller che ne sopportò la vista solo per qualche secondo, prima di ordinargli di scendere.
Quando Rillomyner ebbe finito il suo lavoro e fu tornato a sdraiarsi sui sacchi di sabbia, Toller si rimise al posto di comando. Mise in moto il reattore tenendolo acceso per due secondi, a lunghi intervalli, e studiando gli effetti sul pallone. Ogni spinta suscitava sinistri scricchiolii dei montanti e del sartiame, ma l’involucro risultava molto meno danneggiato che nelle accensioni sperimentali a bassa quota. Incoraggiato, Toller provò i vari tempi e finalmente li sistemò su un ritmo di due-quattro, ottenendo un effetto di impulso continuo senza eccessive sollecitazioni. Un breve getto di gas dal bruciatore ogni due o tre minuti tenne gonfio il pallone e fece in modo che la corona non si flettesse troppo sotto le diverse pressioni dell’aria.
— Si maneggia bene — disse a Zavotle, che stava diligentemente scrivendo sul giornale di bordo.
Sembra che noi due avremo un lavoro più comodo nei prossimi giorni, finché si assesta l’instabilità.
Zavotle sollevò gli occhi. — Comodo per le orecchie, anche.
Toller fece un cenno d’assenso con la testa. Sebbene ogni volta il reattore restasse acceso un minuto in più del bruciatore, prima il suo scarico non finiva dentro la grande cavità del pallone, che ne moltiplicava l’eco. Dava un rumore più basso, meno fastidioso, che veniva assorbito in fretta dai circostanti oceani di silenzio.
Con la nave che si comportava tanto docilmente, e secondo le previsioni Toller cominciò a pensare che i cattivi presagi della notte fossero stati nient’altro che un sintomo della sua crescente stanchezza. Si soffermava sull’idea che in appena sette o otto giorni, se tutto andava bene, avrebbe visto da vicino un altro pianeta. La nave non poteva atterrare su Sopramondo, in realtà, perché questo avrebbe comportato l’asportazione del pannello di sgonfiamento, e senza nessuna attrezzatura di gonfiaggio non sarebbe stata in grado di ripartire. Ma sarebbe arrivata a poche iarde dalla superficie, sollevando il velo del mistero sulla realtà del pianeta gemello.
Le migliaia di miglia d’aria che separavano i due mondi avevano sempre réso difficile per gli astronomi dire molto di più oltre al fatto che c’era un continente all’equatore dell’emisfero visibile. Si era sempre creduto, in parte per ragioni religiose, che Sopramondo somigliasse molto a Mondo, ma c’era sempre la possibilità che fosse inospitale, perché la potenza dei telescopi non bastava a cogliere gli aspetti della superficie al di là di un certo limite. Un’altra possibilità, un articolo di fede per la Chiesa, un caso controverso per i filosofi, era che Sopramondo fosse già abitato.
Come potevano essere gli abitanti di Sopramondo? Costruivano città? E come avrebbero reagito a una flotta di navi aliene che veniva giù dal cielo?
Le divagazioni di Toller s’interruppero bruscamente quando lui si rese conto che il freddo era molto aumentato, in quei pochi minuti. Intanto gli si era avvicinato Flenn, che stringeva al petto il cucciolo di caròle e stava visibilmente tremando. La faccia dell’ometto aveva una sfumatura di blu.
— Il freddo mi sta uccidendo, capitano — disse sforzandosi di fare il suo solito sorriso. — È peggiorato tutto d’un colpo.
— Hai ragione. — Toller si sentì allarmato all’idea di aver attraversato un’invisibile linea di pericolo nell’atmosfera, poi gli venne un’ispirazione. — È da quando abbiamo spento il bruciatore. Il soffio di ritorno del gas migligno ci teneva caldi.
— Non solo — aggiunse Zavotle. — C’era anche l’aria che veniva giù dall’involucro caldo.
— Dannazione! — Toller guardò accigliato i disegni geometrici del pallone. — Questo significa che dobbiamo mettere più calore, là dentro. Abbiamo un sacco di cristalli d’energia quindi saremmo a posto, ma potremmo avere qualche problema dopo.
Zavotle annuì, con aria malinconica. — La discesa.
Toller si morse le labbra mentre, ancora una volta, si trovava ad affrontare difficoltà che gli scienziati della SAS non avevano previsto. Per un veicolo ad aria calda, l’unico modo di perdere quota era perdere calore, calore che però era vitale per l’equipaggio, e a rendere peggiore la situazione c’era il fatto che la direzione del flusso dell’aria si sarebbe invertita durante la discesa, portando la già scarsa quantità di calore a disperdersi verso l’aito, lontano dalla navicella. La conclusione era che avrebbero dovuto passare diversi giorni in condizioni molto peggiori di quelle presenti, con il pericolo reale di morire di freddo.