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Eddie annuì. Altri caratteri sparirono dal taccuino. Vi diedi un’occhiata. Lo schermo era vuoto fatta eccezione per due caratteri. Strizzai gli occhi. Il numero quattro e un punto interrogativo. — È tutto?

Lui mi guardò con aria malinconica, gli occhi non riparati dalle lenti. Indossava una camicia azzurra questa mattina: semplice chambray, aperta sul collo a rivelare una collana d’osso e conchiglie. I capelli erano trattenuti da un fermaglio sulla nuca. Il fermaglio era guarnito di perline: un disegno geometrico. Lavorazione Dakota come la collana. La maggior parte dei suoi antenati erano Anishinabe, ma alcuni provenivano dai Sette Fuochi del Consiglio. Altri erano francesi o inglesi.

— C’è ancora una cosa. — Esitò.

— Gliene ho parlato — disse Derek.

— Che ne pensi, Lixia?

— Credo che sia un’idea disgustosa.

Eddie sospirò. La riga numero quattro sparì. Lui spense il taccuino e lo chiuse, ripiegando lo schermo sulla tastiera. Il taccuino era ancora troppo grande per entrare in una normale tasca. Il problema era costituito dalle dita umane. Non erano state miniaturizzate. La tastiera doveva essere larga almeno venti centimetri perché la maggior parte delle persone potessero usarla.

— È quello che temevo — disse Eddie. — Ti parlerò più tardi. Per favore, incomincia con il rapporto. — Si allontanò, portando il taccuino in una mano.

— Sarà una conversazione spiacevole — osservai.

Derek fece il gesto dell’assenso.

— Se tu gli avessi detto di no, avrei potuto evitarla.

— Uuh.

— Se tu gli avessi detto di no, sarebbe in collera con te. Ora si arrabbierà con me.

— Forse.

— Avevi programmato tutto?

— Io non programmo affatto quanto credi.

— Mmm. — Portai i miei piatti al tavolo riciclante, poi mi recai nella cupola degli approvvigionamenti e mi procurai un taccuino con una memoria di 256 K.

Trascorsi la mattinata nella mia stanza. Per prima cosa buttai giù le storie che avevo sentito la sera prima: il Popolo il cui dono è la follia.

Dopo di che feci un abbozzo del mio rapporto.

Smisi a mezzogiorno e andai a prendermi un sandwich. Mi stavo perdendo una splendida giornata. Grosse nuvole viaggiavano nel cielo. Il lago scintillava. C’erano persone sulla banchina, che scaricavano altre casse. Mi riportai il sandwich nella mia stanza e lo mangiai mentre scrivevo.

Alla fine mi accorsi che mi faceva male la schiena. Dalla finestra non entrava più la luce del sole e il cielo era più verde che azzurro. Il colore del pomeriggio inoltrato. Salvai il mio lavoro e spensi il taccuino, poi mi alzai e mi stiracchiai.

Era troppo presto per la cena. In ogni caso, non avevo fame. Decisi di fare una passeggiata.

Mi diressi a sud lungo il lago. La spiaggia era piatta e relativamente larga. Ci si camminava agevolmente. Qui e là un torrente scendeva dalla scogliera. Erano piccoli e quasi asciutti. Li superai.

La spiaggia si restringeva. La vegetazione incombeva sulla mia destra e sentivo l’odore umido e opprimente di una foresta. Mi voltai a guardare. Il campo era nascosto alla vista.

— Ha-runh - fece qualcosa.

Guardai davanti a me. Una creatura era spuntata dalla vegetazione. Era ferma sulla spiaggia, a quasi dieci metri di distanza, e mi osservava con un piccolo occhio scuro. Non sembrava preoccupata. Perché avrebbe dovuto? Era grossa come un rinoceronte.

Restai immobile, terrorizzata ma anche interessata.

Era un quadrupede. Niente di simile a un cornacurve. La pelle era bruna e senza pelo. Le zampe erano grosse. Aveva una lunga coda che teneva curva in modo aggraziato. La punta si muoveva lievemente avanti e indietro. Che cosa significava? Era un segno di buon umore?

Dalla testa dell’animale spuntavano delle strane corna piatte. Ce n’erano due paia. Mi facevano pensare ai tetti a sbalzo di certi moderni edifici. O a una specie di fungo. Erano rivestite da una lanugine o una pelliccia corta e sottile.

Funghi di velluto marrone. Tetti a sbalzo di velluto marrone.

L’animale restò a osservarmi per uno o due minuti. Poi si diresse elegantemente verso il lago, le grosse zampe che non facevano quasi nessun rumore, ed entrò nell’acqua bassa. Aveva un labbro superiore flessibile, quasi prensile, che sollevò mentre beveva, mettendo in mostra i denti. Erano lunghi, piatti e simili a pale.

Quasi certamente un erbivoro. Sospettai che fosse un brucatore.

Sollevò il capo e mi guardò di nuovo, poi si rimise a bere.

Era ora che me ne andassi. Arretrai lungo la spiaggia. L’animale continuò a bere, ma incominciò ad agitare la coda. Un movimento rapido e nervoso. Ebbi la sensazione che indicasse irritazione.

Smisi di muovermi.

L’animale tornò a riva.

Dove potevo scappare? Sarei stata più al sicuro nell’acqua o nella foresta?

L’animale indugiò un momento e mi fissò, poi si voltò e se ne andò trottando verso sud lungo la spiaggia. Restai a guardarlo allontanarsi, l’ampio posteriore che ondeggiava, la coda che si muoveva su e giù. Da questa prospettiva l’animale appariva stupido, ma non credo che mi sarebbe parso tale se fosse venuto verso di me.

Feci ritorno al campo, lanciando un’occhiata da sopra la spalla di quando in quando per assicurarmi che non mi stesse arrivando niente alle spalle. La spiaggia rimase deserta.

Marina era nella sua cupola e stava dando da mangiare delle foglie a un bipede. — Non vuole niente di quello che gli do. Dovrò lasciarlo andare, a meno che non decida di sezionarlo.

— Devo parlarti di quello che ho visto.

Mi lanciò un’occhiata. Oggi portava lenti a contatto dorate. Si intonavano con gli orecchini, che erano intricati e pendenti e tintinnavano ogni volta che si muoveva. — Mi serve un registratore?

— Sì.

Ne trovò uno e l’accese. — Okay.

Feci una descrizione dell’animale.

— Così grande?

— Non sono particolarmente brava a giudicare le dimensioni. Ma aveva zampe come quelle di un elefante. Questo particolare quanto lo renderebbe grosso?

— Non piccolo. Potrebbe trattarsi di un animale domestico?

— Non lo so. Ma non ho visto niente di simile in alcun villaggio.

— Se non lo è. — Si tirò il labbro inferiore. — Altri problemi. Altri interrogativi. Vorrei sapere quale divinità ringraziare. Spense il registratore. — Domani andrò laggiù a dare un’occhiata alle impronte. Se sarò fortunata, troverò degli escrementi. Questo ci dirà che cosa mangia quella creatura.

— Probabilmente Nia sa che cos’è.

Marina annuì. — Dovrei passare veramente un po’ di tempo con lei. Che ne diresti di domani? Presentaci. Potrebbe venire con me a cercare mucchi di merda.

— Sembra fantastico.

La lasciai lì che cercava ancora di alimentare il bipede, che era un grazioso esemplare. Le penne sulla schiena erano di un grigio tenue, il ventre color bianco panna. Le zampe anteriori finivano in artigli rosa e le zampe posteriori artigliate avevano lo stesso colore delicato. L’animale si muoveva irrequieto avanti e indietro nella gabbia. Le zampe anteriori artigliate prendevano il cibo di Marina e lo lasciavano cadere; quelle posteriori allonanavano a calci le foglie.

Mi recai nella cupola grande. Questa volta seguii un’insegna che mi condusse nello spazio comune, una vasta sala piena di bassi tavoli e comode poltroncine. Era quasi deserta. Vidi Brian, seduto con un paio di cinesi. Sollevò una mano in un cenno di saluto. Gli feci un cenno in risposta e mi avvicinai al bar.

Il barista era un uomo tarchiato dai lineamenti maya. Di norma i suoi occhi erano di un comune marrone scuro. Ogni tanto, però, quando la luce li raggiungeva con la giusta angolazione, l’iride diventava verde, uno scintillante colore metallico, sorprendente e inquietante.

— Li Lixia. — Mi tese la mano. — Gustavo Isidis Planitia. Faccio parte del team medico.

Ci stringemmo la mano. Mi chiese di nominare la mia tossina. Dissi chablis.

Riempì un bicchiere. — Sei ancora in quarantena?

— Che cosa vuoi dire?