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— Che cosa sta succedendo? — domandai a Nia.

— Alcune di loro sono d’accordo con Angai. Altre no. Grideranno tutte finché non si saranno stancate.

Mi voltai a guardare la folla. La discussione proseguì. I bambini, quelli più grandicelli, se ne andarono alla chetichella, evidentemente annoiati. I bambini più piccoli incominciarono a piangere. Le loro madri li presero in braccio, li abbracciarono e li cullarono.

Le altre donne continuarono la discussione, ma con meno impeto a questo punto. Le voci si erano fatte più sommesse, i gesti meno ampi.

La luce abbandonò gradualmente lo spiazo. Solo le sommità delle tende erano illuminate, e le punte delle insegne di metallo. L’oro, l’argento e il bronzo luccicavano contro il cielo, che era limpido e di un intenso verdeazzurro.

Alla fine regnò il silenzio rotto solo dal piagnucolio dei neonati e dalle voci acute e chiare di un gruppetto di bambini che avevano dato inizio a un nuovo gioco.

— Hai! Hai! Ah-tsa-hai!

Le donne guardavano Angai, che parlò con voce alta e ferma.

Le donne risposero con gesti di dubbiosa approvazione.

Angai mi guardò. — La giornata è quasi finita. È una cattiva idea incominciare qualcosa di importante al buio. Pertanto, ti chiedo di fare ritorno presso le vostre barche. Torna domattina con tutti. Tutta la tua gente. Ascolteremo il vostro problema.

Feci il gesto della gratitudine e mi alzai in piedi.

— Tu, Nia. — Angai guardò la mia compagna. — Va’ con la persona senza pelo. La gente qui ti conosce da troppo tempo. Dimenticherà che ora sei una straniera e non ti tratterà con la cortesia dovuta a una viaggiatrice.

Nia fece il gesto dell’assenso.

Hua disse: — Voglio andare con loro.

Angai si accigliò.

— No — ribatté Nia. — Non voglio che la gente dica che sei uguale a me.

— Nia ha ragione — dichiarò Angai. Guardò la figlia adottiva. — Domani vedrai le persone senza pelo. Questa notte resterai qui.

Hua fece il gesto della riluttante acquiescenza. La folla si divise. Nia e io vi passammo in mezzo.

— Aiya! - esclamò Nia. — Che giornata!

Scendemmo lungo la scogliera. Le luci sulla prima imbarcazione erano state accese. Tenui e regolari, illuminavano il ponte scoperto sulla parte posteriore della barca. L’oracolo se ne stava seduto lì, rosicchiando la zampa anteriore di un bipede. Alzò lo sguardo quando salimmo a bordo. — Che cosa è successo? Ti sei procurata del cibo?

— No — rispose Nia.

— È meglio che ti sbrighi. È finito tutto a parte questa e il cibo della gente di Lixia.

— Non mi hai lasciato niente?

— Credevo che avresti mangiato al villaggio.

— Aiya!

Lui le porse l’osso.

Nia fece il gesto dell’espansiva gratitudine. Aprii la porta della cabina. Dentro c’erano Agopian e la Ivanova che giocavano a scacchi.

Agopian alzò lo sguardo. — Siete tornate?

— Uuh. È andato tutto bene. Possiamo recarci al villaggio domani. Tutti quanti.

— Congratulazioni. — La Ivanova rovesciò il proprio re. — Mi arrendo. Non posso fare niente con i miei pedoni.

Agopian sorrise. — Uno dei nostri pedoni è diventato un socialista rivoluzionario e ha convinto gli altri a costituire un soviet, il che significa, naturalmente, che al bianco non sono rimasti comuni soldati.

— E il rosso vince — disse la Ivanova in tono cupo.

— Di che cosa state parlando?

— Scacchi brechtiani. — Agopian incominciò a mettere via i pezzi. — Sono stati chiamati così in onore del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che sosteneva che il normale gioco degli scacchi fosse noioso. I pezzi dovrebbero cambiare a seconda di dove si trovano sulla scacchiera e del tempo da cui sono lì. È stato un pazzoide di nome Robik a inventare realmente il gioco agli inizi del Ventiduesimo Secolo.

— È un gioco assolutamente irritante — osservò la Ivanova.

— Carlo Marx odiava perdere agli scacchi. La cosa non infastidiva Lenin, almeno secondo Gorki. — Agopian ripiegò la scacchiera, poi la ripiegò una seconda volta. — Lenin era interessato al modo in cui perdeva e questo gli impediva di adirarsi per il fatto di avere perso. Sosteneva che gli scacchi gli insegnavano parecchio sulla strategia e la tattica. Ma dovette rinunciarvi. Interferiva con la sua attività rivoluzionaria.

— Dove sono tutti gli altri? — chiesi.

— Sull’altra barca. Il signor Fang sta preparando la cena. Iguana con peperoni rossi e cipolle verdi. Noi volevamo finire la nostra partita.

— Anche se non so perché — disse la Ivanova. Si alzò e si stiracchiò.

— Pensavi che avresti vinto, compagna, quando il mio commissario ha incominciato a manifestare preoccupanti tendenze revisioniste.

— Commissario? — dissi.

Agopian sorrise. — Robik voleva sbarazzarsi degli elementi feudali nel gioco degli scacchi. Ha trasformati i cavalli in commissari.

— Non dirmi altro.

— Non lo farò. Vieni a cena?

— No.

— C’è della birra nella cambusa e il necessario per fare dei sandwich. — Uscì sul ponte.

La Ivanova lo seguì, indugiando sulla porta. — Hai fatto un ottimo lavoro, Lixia.

Feci il gesto che indicava l’umile accettazione di una lode.

Se ne andò. Presi una birra e la bevvi, poi mi preparai un sandwich. Me lo portai fuori sul ponte insieme a un’altra birra.

Nia e l’oracolo erano ancora lì. — Avete avuto abbastanza da mangiare?

— Io sì — rispose l’oracolo. — Ma Nia sarà affamata quando si sveglierà.

Nia fece il gesto che significava "niente di grave".

Mi sedetti di fronte ai due nativi. — Nia, perché tua figlia era turbata quando le ho chiesto se aveva conosciuto la vecchia Hua?

— Ahi! — esclamò l’oracolo. — Le hai chiesto quello?

— Sì. Che cosa c’è di male in questa domanda?

— Nessuno dà mai a una bambina il nome di una donna ancora viva — mi spiegò Nia. — Se una donna incontra la propria madre di nome, significa che incontra un fantasma.

Dissi: — Uh! — e bevvi ancora un po’ di birra, poi chiesi: — Questo vale anche per gli uomini?

— No — rispose l’oracolo.

Nia aggiunse: — Ai figli maschi vengono dati nomi di uomini che hanno lasciato il villaggio. Di solito il nome di un fratello della madre. A mio figlio è stato messo il nome di mio fratello Anasu. Per quanto ne so, è ancora vivo. — Esitò. — Lo spero. — Guardò l’osso che teneva in mano. Era completamente ripulito. Non rimaneva nemmeno un frammento di carne. — Quando mio figlio lascerà il villaggio, potrà anche incontrare Anasu. Non sarà niente di particolarmente spaventoso.

— A meno che non cerchino di rivendicare lo stesso territorio — disse l’oracolo.

— È assai improbabile. — Nia gettò a terra l’osso, che sbatté sul ponte con un rumore secco. — Mi prenderò una coperta e dormirò lassù. — Indicò la prua dell’imbarcazione.

— Va bene — dissi.

Si alzò rigidamente, come se si fosse affaticata molto con qualche lavoro fisico. Be’, un giorno anch’io avrei scoperto che effetto faceva tornare a casa.

Finii la birra, andai nella cabina e aprii un letto.

— Mi serve una coperta — disse l’oracolo.

Ne presi una per lui. Se la portò fuori. Mi svestii e mi coricai. Restai per un po’ di tempo a pensare alla giornata: le tende e i carri, le persone, in particolare i bambini. Che cosa si doveva provare ad avere una figlia? Allungai la mano verso il pulsante sulla parete sopra di me, lo schiacciai e la luce si spense.

Udii la voce di Derek: — Non sei venuta a riferire ieri sera. Siamo rimasti delusi, Lixia.

Aprii gli occhi. La cabina era piena di persone: Derek, Ago-pian, Tatiana.

— Dovete stare tutti qui dentro? — domandai.

— Disponiamo di spazio limitato al momento — rispose Derek.

Agopian annuì col capo. — Due barche e un pianeta.

— Che cosa è successo al villaggio? — s’informò Tatiana.

— L’ho raccontato ad Agopian. La sciamana, il suo nome è Angai, ha accettato di aiutarci con il nostro problema. Scusatemi. — Andai nella stanza da bagno.