— La persona è una donna — disse Nia. — Viene dallo stesso posto di Li-sa. Loro parlano una lingua che è assolutamente diversa dalle lingue della pianura. Le desinenze sono differenti.
Inahooli fece il gesto che significava che capiva ciò che dicevamo.
Nia proseguì. — I nostri cornacurve sono fuggiti. Lei… questa persona, Derag… è andata a cercarli.
Inahooli ripeté il gesto della comprensione.
— Tu rimani qui — feci io. — Se Derek arriva, dille dove sono. Capirà.
Nia fece il gesto che significava "no".
— Perché no?
Nia si grattò la nuca. Forse era stata morsicata in quel punto, anche se, da quanto ricordavo, la pelliccia lì era piuttosto folta.
— Ascoltate — disse Inahooli. — Io me ne vado. Voi due potete discutere. Forse quella — puntò il dito contro Nia — ha qualcosa di cattivo da dire su di me. — S’incamminò lungo la riva
— Okay — dissi. — Qual è il problema? Credi che quella donna sia pericolosa?
— No. Ma credo che abbia sentito parlare di me. Quando la mia gente ha scoperto di me ed Enshi, c’è stato un gran clamore. Il Popolo dell’Ambra potrebbe aver sentito quelle voci. Loro fanno scambi con noi.
— Voglio vedere la torre. Hai sentito parlare di cose del genere?
— Sì. Il Popolo dell’Ambra non è come la mia gente. Noi siamo imparentati con il Popolo della Pelliccia e dello Stagno. Conosciamo quelle persone. Le chiamiamo "consanguinee". E credo che possa esserci una parentela anche con il Popolo del Rame. La loro lingua non è difficile da imparare. Ma il Popolo dell’Ambra… La loro lingua è difficile e le loro usanze sono particolari. Loro si vantano moltissimo. Ogni clan cerca di superare gli altri nella costruzione di torri e nella danza. Non li capisco.
— Io vado — dissi. — Dovrei essere di ritorno questa sera.
Nia fece il gesto che significava "così sia". — Non dirle che viaggiamo con degli uomini. Non credo che capirebbe.
— Okay. — Feci un cenno della mano a Inahooli, che tornò indietro. — Vengo con te.
— Bene. Sarà un evento straordinario. Nessuna guardiana ha mai mostrato la nostra torre a una persona senza pelo.
Spingemmo lontano dalla riva la canoa e ci salimmo. Inahooli incominciò a pagaiare. Nel giro di un minuto o due Nia era sparita alla vista, nascosta dalle piante che io chiamavo canne, che ondeggiavano sopra di noi, alte e di un grigioazzurro spento. La maggior parte degli steli terminava in un ammasso di foglie, ma qui e là distinguevo una testa rotonda, scura e pelosa. Il fiore della pianta? Non lo sapevo.
Scivolammo silenziose verso il largo. Davanti a noi c’erano delle isole. Erano piccole, larghe solo alcuni metri, costituite di una tenera pietra vulcanica che l’azione degli agenti atmosferici aveva modellato in forme assai bizzarre. Una somigliava a un fungo. Un’altra, alta e sottile, mi faceva venire in mente una donna umana con una lunga veste. Una terza era un arco. Una quarta era una cattedrale in miniatura. Tardo Gotico, decisi. La cattedrale aveva un sacco di guglie.
Scivolavamo fra le isole. Guardai giù. L’acqua era limpida. Un pesce comparve con un guizzo, poi si girò di lato e sparì. Che pianeta! Tutt’a un tratto provai un senso di orrore all’idea di tornare a casa.
Falla finita, pensai. Non pensare alla Terra. Concentrati sul presente. Goditi quello che hai adesso.
Guardai davanti a me. C’era un’altra isola in vista: lunga e bassa, circondata di canne. A un’estremità sorgeva una costruzione, alta una ventina di metri, calcolai, e fatta di una rozza ingraticciata. Alla torre erano appesi stendardi, che in quel momento penzolavano flosci. Man mano che ci avvicinavamo, scorsi altre decorazioni: mucchi di penne e lunghe filze di conchiglie.
— La torre della Cordaia — mi spiegò Inahooli.
Girammo intorno all’isola. Sull’altro lato c’era una spiaggia. Sbarcammo e tirammo la canoa sulla ghiaia. Inahooli mi guidò verso la torre. L’isola era rocciosa e quasi totalmente brulla, con solo sporadiche macchie di vegetazione: pseudomuschio color arancione, pseudo-licheni bruni e una grigia pianta ricca di foglie che mi arrivava a metà polpaccio. C’erano soltanto due oggetti abbastanza grandi: la torre e una tenda di tessuto marrone scuro.
— Quella è la mia dimora — mi spiegò Inahooli. — Ogni primavera veniamo qui. Il clan ricostruisce la torre ed esegue cerimonie per santificarla. Poi lanciamo i dadi e una di noi viene scelta per fare la guardiana. Quella donna resta presso la torre per tutta l’estate. La sorveglia e si assicura che non le capiti nulla. In autunno la tribù ritorna. Il clan invita tutti a una grande danza. Mangiamo. Facciamo musica, ci vantiamo delle nostre antenate. Se tutto va bene, gli altri clan si sentono in imbarazzo. Dopo di che andiamo tutti a sud verso la Terra dell’Inverno. Il Clan dell’Uccello Terrestre esegue laggiù le proprie danze. Di solito malamente. Per qualche ragione, non sono mai state brave a vantarsi. E in ogni caso, di cosa mai dovrebbero vantarsi? La loro antenata non è che un miserabile uccello terrestre che ha fatto soltanto una cosa di una certa importanza.
— Che cosa?
— Ha rubato il fuoco allo Spirito del Cielo e lo ha dato al popolo del mondo. Un’ottima cosa. Ci sentiamo grate nel cuore dell’inverno quando la neve è alta e soffia il vento e così via. Ma la nostra antenata ha salvato tutti gli esseri viventi.
— Oh, davvero?
Arrivammo alla tenda. La torre si trovava solo a una decina di metri di distanza. Vicino alla base c’era una fila di maschere appese all’ingraticciata. Erano ovali e con fori degli occhi rotondi. Ciascuna era dipinta di un colore uniforme: rosso, giallo, nero, bianco. Le indicai col dito. — Chi rappresentano?
— Quella nera è la Cordaia. La gialla è l’Imbroglione. La rossa è la Signora della Fucina. E la bianca è la Vecchia del Nord.
— Parlami di loro.
Lei mi scrutò da capo a piedi. Era uno sguardo prudente, lo sguardo di una narratrice che ha avuto un’opportunità. — Benissimo. Ma non posso usare le maschere. Devono restare dove sono fino alla grande danza. Siediti. Cercherò di rendere la storia semplice e il più breve possibile.
Mi sedetti di fronte alla tenda e Inahooli si sistemò davanti a me. Nel cielo un uccello zufolò, librandosi sopra il lago.
— Questa è la storia del pettine d’avorio — mi disse con voce sonora.
"Nell’estremo nord vive una vecchia. La sua tenda si trova nel cielo. Le pareti della tenda sono fatte di luce e pendono in pieghe dai pali della tenda, che sono fatti con le ossa del mostro del mondo originale. Come siano arrivate nel cielo è un’altra storia, che non ho il tempo di raccontare. La vecchia ha un pettine, ricavato da uno dei denti del mostro. È d’avorio, bianco come neve. Lei lo usa per pettinarsi la pelliccia. Quando lo fa, tira fuori delle creature. Queste cadono sul pavimento e spariscono, passando attraverso il pavimento per finire nel mondo. Tutti gli animali del mondo nascono in questo modo.
"Quando la vecchia si pettina il lato sinistro del corpo, gli animali che escono sono buoni e utili: i cornacurve che conduciamo in branco, gli uccelli che cacciamo e mangiamo. Quando si pettina il lato destro del corpo, gli animali che escono sono dannosi: lucertole dal morso velenoso e insetti che mordono. Gli abitanti del mondo cantano rivolti alla vecchia, lodandola e chiedendole aiuto. Questa è una delle canzoni:
"Nonna, sii generosa.
Pettinati la parte sinistra del corpo.
Allora saremo prosperi.
Allora saremo felici.
I nostri figli saranno grassi
Nelle nostre tende presso il fuoco.
"Nonna, sii compassionevole.
Non pettinarti la parte destra del corpo.
Lascia le lucertole dove sono.
Non mandarci
gli insetti che mordono e pungono.
"Nell’estremo sud c’è un giovane. È alto e di bell’aspetto. I suoi occhi sono gialli come il fuoco. Nessuno sa con certezza chi sia sua madre. Alcuni dicono che sia il grande spirito, la Madre delle Madri. Altri dicono che sia un demone del fuoco.