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«… colossale ottusità.» Così cominciava il testo. «Per la preoccupazione di mantenere la sua autorità, la commissione, e più precisamente Shannahan e Timolis (poiché la voce di Trahier non conta), ha respinto le mie raccomandazioni.

Mi rivolgo adesso direttamente all’Istituto, ma capisco che è una protesta inutile. Avendo dato la mia parola, non posso riferirti ciò che mi aveva descritto Berton. La decisione del consiglio è stata motivata dal fatto che la testimonianza veniva da un uomo incolto, anche se qualsiasi studioso dovrebbe invidiare a questo pilota la lucidità di mente e la capacità di osservazione. Mandami, ti prego, per posta: 1) la biografia di Fechner, specialmente i particolari sulla sua infanzia;

2) tutto ciò che sai della sua famiglia e della sua situazione familiare; sembra che sia rimasto orfano da bambino; 3) la topografia del luogo dove è stato allevato.

«Vorrei dirti che cosa penso di tutto ciò. Dopo la partenza di Fechner e Carucci, nel centro del sole rosso si creò una macchia che, secondo i dati forniti dal satellite, bombardò con le sue radiazioni corpuscolari particolarmente l’emisfero sud, dove si trovava la base, neutralizzando le trasmissioni radio. Fechner e Carucci si erano allontanati più di tutti dalla base.

«Dall’arrivo sul pianeta, e fino a quel malaugurato giorno, non c’era mai stata una nebbia così fitta, né un silenzio radio così completo.

«Penso che la cosa vista da Berton facesse parte della

‘Operazione Uomo’ intrapresa da quel mostro appiccicoso.

In effetti la fonte di tutte le creazioni viste da Berton era Fechner, o meglio il suo cervello, sottoposto a una ‘dissezione psicologica’ per noi inconcepibile; riguardava una ricreazione o ricostruzione sperimentale, sulla scorta di alcune tracce (quelle sicuramente più durature) incise nella sua memoria.

«Lo so che possono sembrare fantasticherie; so anche che posso sbagliare. Ma ti prego di aiutarmi. Attualmente mi trovo sull’Alarico, e lì aspetterò la tua risposta.

Tuo A.»

Si era fatto così buio che riuscivo a malapena a leggere. Il libro era diventato grigio, ma la pagina vuota indicava che ero arrivato alla fine di quella testimonianza, alla quale, avendo vissuto quel che avevo vissuto, ero incline a prestare fede. Mi girai verso la finestra. L’orizzonte era immerso in un viola profondo, come se ci fossero le braci di un fuoco di carbone che si spegne. L’oceano coperto di tenebre era invisibile. Sentivo il leggero fruscio della carta attaccata ai ventilatori. L’aria riscaldata, con un leggero odore di ozono, era immobile. Un silenzio assoluto riempiva la stazione.

Pensai che nella nostra decisione di rimanere non c’era niente di eroico. Il periodo delle spedizioni coraggiose, delle lotte planetarie epiche, delle tremende morti, come per esempio quella di Fechner, era chiuso già da tempo. Non m’interessava più chi fossero gli ospiti di Snaut e Sartorius. Poi mi ritrovai a pensare: «Smetteremo di vergognarci e isolarci. Se non riusciremo a toglierci di dosso gli ‘ospiti’, ci abitueremo e vivremo con loro, e se il loro creatore ha voluto cambiare le regole del gioco, ci adatteremo a queste novità, anche se per un certo periodo di tempo saremo recalcitranti e ci ribelleremo, anche se qualcuno di noi cederà allo sconforto e si ucciderà. Alla fine riusciremo ad arrivare a un equilibrio».

La stanza si riempiva di un buio che assomigliava molto a quello terrestre. Solo le forme bianche del lavandino e dello specchio schiarivano l’oscurità. Mi alzai e, tentoni, ritrovai il batuffolo di cotone sul ripiano: mi detersi la faccia e mi sdraiai sul letto. In qualche posto sopra di me si sentiva un ronzio simile a quello di una falena, che aumentava e diminuiva.

Era il condizionatore. Non vedevo nemmeno la finestra, tutto era immerso nelle tenebre, solo un filo di luce, che non sapevo da dove giungesse, passava sopra di me, forse proveniva dalla parete, forse da lontano, forse dal fondo del deserto che si trovava dietro la finestra. Mi ricordai come mi aveva spaventato, il giorno prima, lo spazio di Solaris, e quasi sorrisi.

Non ne avevo più paura. Non avevo paura di niente. Mi avvicinai il polso agli occhi. Il quadrante dell’orologio brillò con tutte le cifre fosforescenti. Di lì a un’ora sarebbe cominciata l’alba del sole azzurro. Mi godevo il buio, respiravo profondamente, vuoto e libero da ogni pensiero.

A un certo punto, mentre mi muovevo, sentii la forma piatta del registratore che mi premeva sulla coscia. Vero. Gibarian. La sua voce era incisa sul nastro. Non mi era venuto ancora in mente di ascoltarla. Era tutto ciò che avrei potuto fare per lui. Estrassi il registratore per nasconderlo sotto il letto. Sentii un fruscio e un leggerissimo scricchiolio della porta che si apriva: — Chris…? — percepii nel silenzio una voce che era quasi un sussurro. — Sei qua, Chris? C’è tanto buio.

— Non importa — dissi. — Non aver paura, vieni.

7. IL CONSIGLIO

Ero steso supino, con la sua testa sulla spalla, e non pensavo a niente. Le tenebre che riempivano la camera prendevano vita. Udivo dei passi. Le pareti sparivano. Qualcosa si accumulava sopra di me, sempre più alto e senza limite. Trafitto da parte a parte, rinserrato senza essere toccato, ero coagulato nelle tenebre, ne sentivo la trasparenza acre, che sostituiva l’aria. Molto lontano udii il mio cuore. Chiamai a raccolta tutta l’attenzione, tutte le forze residue, nell’attesa dell’agonia. Non venne. Rimpicciolivo, e l’invisibile cielo senza orizzonte, spazio informe privo di nuvole e di stelle, si allontanava, si ampliava, cresceva, prendendomi come centro. Cercai di rintanarmi, là dov’ero sdraiato, ma non c’era più niente sotto di me. Con le mani mi coprii il viso. Non l’avevo più.

Le dita, chiudendosi, vi passarono attraverso. Volevo gridare, urlare… La camera era grigioazzurra. Gli arredi, gli scaffali, gli angoli erano come isolati fra larghe strisce opache, informi e senza colore. Un bianco più chiaro della perla appariva in silenzio da dietro la finestra. Avevo il corpo inzuppato di sudore, guardai di lato, lei mi stava osservando.

— Ti si è intorpidito il braccio?

— Cosa?

Alzò la testa. Aveva gli occhi dello stesso colore della camera, grigi, che lucevano fra le ciglia nerissime. Sentii il calore del suo sussurro prima di capirne le parole.

— No. Ah, sì.

Le posai la mano sulla spalla. Il contatto mi elettrizzava.

Con l’altra mano l’attirai lentamente a me.

— Hai fatto un brutto sogno?

— Un sogno? Sì, un sogno. E tu non hai dormito?

— Forse no, non lo so. Non avevo sonno. Tu, però, dormi ancora un po’. Perché mi guardi così?

Socchiusi gli occhi. Sentivo il battito regolare del suo cuore contro il mio, che batteva un po’ più lentamente. «Accessorio di scena» pensai. Ma non mi meravigliavo più di niente, neanche della mia stessa indifferenza. Ormai mi ero lasciato alle spalle la paura e la disperazione. Ero arrivato lontano, oh, così lontano nessuno era mai andato. Le mie labbra le sfiorarono il collo, scesero giù fino alle piccole cavità fra i tendini, lisce come l’interno di una conchiglia. Anche qui sentivo la pulsazione.